



LEADERSHIP POLITICA/1
Cenni sulla leadership politica
di Paolo Giusta
1. Cos’è la leadership, chi è il leader?
Quando pensiamo alla leadership, in genere, ciò che ci viene in mente non è tanto la leadership, ma un leader, una persona in carne ed ossa: il capo di un partito politico, un manager importante, qualcuno che occupa una posizione di comando. E, per contrasto con il leader che comanda, dei follower che eseguono i suoi ordini, che subiscono le conseguenze, positive o negative, delle sue decisioni.
Perché è così?
Siamo condizionati dall’uso comune della parola “leadership”, nei media e spesso in letteratura, che riflette quella che i coniugi Denhardt definiscono la “vecchia job description” del leader: il compito del leader è “(1) elaborare buone idee sulla direzione che il gruppo, l’organizzazione o la società dovrebbe prendere, (2) determinare una linea di azione da seguire o un obiettivo da perseguire e (3) esercitare la propria influenza o controllo nello spingere in quella direzione”[1].
Il primo problema con questo modo di intendere la leadership è che non funziona più: il mondo è diventato straordinariamente complesso, i problemi che ogni organizzazione deve affrontare multifaceted: come può un uomo, o una donna, soli al comando, sapere come affrontare una data situazione, risolvere un problema, e orientare il gruppo dei follower nella direzione da lui determinata?
Il secondo problema con il concetto tradizionale del leader-capo è che non è corretto. Se il leader fosse (solo) il capo non ci sarebbe bisogno di un concetto distinto da quello di capo, manager, boss, segretario di un partito, Presidente del Consiglio, ministro. La leadership è qualcosa di diverso e più ricco di una posizione, sia essa di management o di responsabilità politica.
Se la leadership non coincide con una posizione, che cos’è, allora?
Una definizione più corretta di leadership è quella data dal manuale di riferimento di Peter Northouse: “la leadership è un processo attraverso il quale una persona influenza un gruppo di persone per raggiungere un obiettivo comune”[2].
Esaminiamo le varie componenti di questa definizione.
La leadership è un processo
È innanzitutto qualcosa che accade, qualcosa che si può osservare. La leadership è legata ad una situazione, a ciò che succede nelle interazioni tra le persone coinvolte in una situazione, e non è semplicemente legata ad una singola persona, quella del leader.
Si dice spesso: “leader si nasce”. Non è così: leader si è quando, in un momento dato, si esercita influenza. I tratti del carattere del leader, le caratteristiche della sua personalità, possono essere importanti, ma non fanno la leadership.
Come non fa la leadership il semplice fatto che il leader occupi o meno una data posizione: “La leadership non deve essere vista solo come la posizione che qualcuno occupa, ma come qualcosa che succede in un gruppo o in un’organizzazione, qualcosa che va e che viene, come la marea, durante il corso del lavoro del gruppo o dell’organizzazione. Ognuno può essere un leader, per un momento, per alcune ore, giorni, settimane, o per anni”[3].
La leadership implica influenza
L’influenza è, in essenza, il contenuto della leadership. Essere leader significa influenzare.
È un’influenza che il leader esercita su altri: non si può essere leader solo di se stessi. Anche se la leadership comincia con il diventare innanzitutto leader di se stessi, col prendere in mano la propria vita, diventare persone autonome, non si può fermare a questo stadio, e l’influenza del leader deve esercitarsi su altre persone, su un gruppo. Allo stesso tempo, i membri del gruppo, con le loro idee, le loro aspirazioni, i loro comportamenti, hanno un impatto sul leader e l’influenza è sempre, pur in diversa misura, reciproca, mai unidirezionale (pensiamo all’influenza reciproca tra un eletto e al sua comunità di riferimento).
La leadership avviene in seno a un gruppo di persone
Non c’è leadership senza un gruppo di persone (i follower) che accetta di essere influenzato dall’azione del o dei leader.
Può trattarsi di un gruppo più o meno piccolo (una squadra di lavoro, una piccola e media impresa, …) o di un gruppo grande, fino all’intera comunità nazionale o mondiale. Pensiamo all’impatto planetario di Greta Thunberg o Malala Yousafzai, che esercitano un’enorme influenza, senza essere a capo di alcunché e senza avere alcuna posizione di potere.
Il processo di influenza in cui consiste la leadership si traduce in un’interazione, una relazione, quella tra i leader e i follower[4]. I ruoli sono diversi, ma entrambi gli elementi del binomio leader-follower hanno una responsabilità, diversa come diversi sono i ruoli, ma indispensabile, nel perseguimento degli obiettivi comuni.
Spesso, inoltre, l’influenza tra leader e follower non è unidirezionale, ma reciproca. Un approccio teorizza la leadership come un processo “co-creato”, risultante dall’interazione tra il comportamento dei follower con quello del leader[5].

La leadership comporta obiettivi comuni
Senza quest’ultimo elemento non possiamo parlare di leadership. Un poeta può ispirare le folle con la forza della sua arte, ma solo chi propone, o suscita, scopi condivisi è un leader. Sono leader, ad esempio, attiviste come le due ragazze appena citate: non si limitano a denunciare, ma propongono soluzioni, hanno una linea molto chiara su ciò che andrebbe fatto, e mobilitano chiunque sia disposto ad aderire al loro messaggio a rimboccarsi le maniche e passare all’azione per mettere per far sì che questi obiettivi comuni diventino realtà.
2. In politica, chi esercita la leadership?
2.1. Cos’è la leadership “politica”?
Se la leadership è un processo e non ha necessariamente a che vedere con una posizione, allora potremmo definire la leadership politica come un processo di mutua influenza tra cittadini ed eletti (con l’aggiunta dell’apparato amministrativo), avente come obiettivo il bene comune, l’interesse generale.
Questa definizione si applica, ovviamente, a un regime democratico un cui elezioni libere e regolari sono possibili.

* «Eletti»: include anche chi è scelto dagli eletti per esercitare funzioni politiche.
2.2. La leadership politica originaria: il cittadino
“[…] La sovranità appartiene al popolo […]” (articolo 1 della Costituzione italiana).
In democrazia, la leadership politica originaria non è quella dei “leader politici” come li intendiamo comunemente: gli eletti e i governanti.
La leadership politica originaria è quella del cittadino: è da lì che parte il movimento della politica. È, per primo, il cittadino che esercita la sua influenza, cioè agisce da leader, votando, decidendo chi merita di governarlo, in funzione delle qualità personali e di partito e in funzione delle finalità che, esercitando il voto, il cittadino intende supportare. Finalità su cui si fonda il progetto politico dei candidati a cariche pubbliche elettive, che il cittadino dovrebbe supportare perché riflette i suoi valori e la sua scelta informata.
Si potrebbe obiettare che questa non è vera leadership, perché mancano le altri componenti del concetto di leadership: “una persona”, “un gruppo di persone”, l’“obiettivo comune”.
In realtà la leadership non deve necessariamente essere esercitata da una sola persona (questa è una forma di leadership, quella individuale). Il voto è un’espressione di leadership collettiva: è un insieme di persone (i votanti) ad essere coinvolto, come attore, nel processo di influenza. Il “gruppo” che viene influenzato è l’insieme delle persone sottoposte all’azione di governo (nazionale o locale; sovranazionale nel caso delle elezioni per il Parlamento europeo, il solo organo elettivo di un’organizzazione internazionale dotato di poteri decisionali), dato che il governo che emerge dal voto attuerà politiche diverse secondo il risultato delle elezioni, l’obiettivo comune è il programma, di un partito o di una coalizione, la cui attuazione è resa possibile dal risultato del voto.
Questo tipo di leadership politica è aperto a tutti, almeno chi ha acquisito il diritto ad esercitare l’elettorato attivo.
L’influenza esercitata dai cittadini non si limita al momento del voto. Il voto non è una delega in bianco, il momento in, cui ogni tot anni, il cittadino abdica al suo ruolo di leader politico. Ogni cittadino può, e dovrebbe, svolgere un ruolo attivo, contribuendo ad orientare l’azione politica ed amministrativa verso il bene comune. Ciò può avvenire in almeno tre modi:
- non lasciare solo l’eletto, ma sostenerlo, accompagnarne l’azione. Se da una parte il potere può inebriare, dall’altra separa, pone l’eletto una situazione di solitudine, a volte profonda. Il cittadino può scrivere all’eletto (o a chi svolge un ruolo istituzionale senza essere stato eletto), incoraggiarlo, renderglisi vicino, dirgli che apprezza il suo operato o fagli saper quando pensa che stia sbagliando. Chi governa lo fa in nome e per conto del popolo: non è male se, ogni tanto, il “cliente” fa sentire la sua voce;
- proporre, attraverso le forme previste istituzionalmente (secondo gli ordinamenti: referendum propositivo, petizioni a enti di governo o legislativi, iniziative di legge popolare, bilancio partecipativo, …) o attraverso altre forme (petizioni online, raccolte di firme, …). Far sentire la propria voce e integrare così il programma di governo, che non è scolpito nella roccia ma deve evolvere, come evolvono la realtà e i bisogni della società;
- controllare l’operato di chi legifera e di chi governa, verificando se gli eletti fanno quello che avevano detto che avrebbero fatto, e lo fanno fare all’amministrazione che è al servizio dell’azione di governo degli eletti.
Un altro tipo di leadership, non praticato dalla maggioranza dei cittadini ma abbastanza diffuso, è l’esercizio, da parte di non eletti, di influenza in campo politico, a livello locale o nazionale, attraverso l’impegno personale (gli attivisti, gli influencer) o attraverso le associazioni che operano nella società civile.
Più rari, ma possibili, sono i casi di persone che, senza ricoprire alcuna carica pubblica, hanno esercitato un’influenza politica su larga scala: abbiamo citato Greta Thunberg e Malala Yousafzai, che perseguono scopi di cui si occupa, o dovrebbe occuparsi, l’azione politica (la tutela dell’ambiente ed i diritti delle donne) nel loro ruolo non di elette, ma di attiviste; Jean Monnet e Gandhi, mai eletti, hanno cambiato il destino del continente europeo e del subcontinente indiano.
2.3. La leadership dell’eletto come leadership derivata
L’eletto, che vediamo come chi sta in cima alla piramide del potere, non è leader per la sua posizione (lo scranno di deputato, il ruolo di governo, l’essere a capo di un partito) ma perché qualcuno lo ha messo lì: i cittadini con il loro voto o gli iscritti ad un partito, cioè quella parte di cittadini che hanno deciso di esercitare il “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49 della Costituzione italiana).
Gli eletti sono quindi leader di riflesso, come conseguenza della leadership originaria esercitata dai cittadini. Hanno nelle mani un potere più o meno grande, quello di decidere delle sorti di una comunità o della società – o di farsi, con maggiori mezzi a disposizione, gli affari loro con leggi ad personam ed altri provvedimenti, come purtroppo è accaduto. Questo potere, tuttavia, è stato loro affidato, come Dio ha affidato la terra ad Adamo ed Eva: non è loro proprietà e può, almeno ad ogni tornata elettorale, essere loro tolto.
Il primo vettore (dai cittadini agli eletti) della leadership riflessa, cioè derivata da quella dei cittadini, degli eletti è il mandato a rappresentarli. Ogni cittadino, votando, dà mandato a un certo numero di eletti non di rappresentare lui, ma l’intera comunità. La rappresentanza conferisce legittimità all’esercizio del potere da parte degli eletti[6].
Attraverso il voto si instaura tra elettori ed eletti un rapporto di fiducia, in base al quale i primi delegano l’esercizio della sovranità, che appartiene ai cittadini, agli eletti (e agli amministratori non eletti, che gestiscono la cosa pubblica in base alle direttive degli eletti). Può trattarsi di una fiducia cieca, se il cittadino vota senza essere ben informato del programma del partito o senza sapere a chi gioverà il suo voto[7]; oppure di una fiducia ben riposta, se il cittadino ha una ragionevole certezza che sono presenti gli ingredienti che rendono possibile la fiducia: competenza (l’eletto è esperto delle materie su cui deve decidere, o possiede le qualità per diventare esperto in corso di mandato) e onestà (l’eletto persegue l’interesse generale, e non interessi particolari o il suo interesse personale).
La fiducia, se c’è, si nutre di un rapporto costante nel corso del mandato, che non si esercita unicamente nel momento in cui, votando, il cittadino ha la possibilità di revocare la delega di rappresentanza all’eletto. Questo rapporto dovrebbe essere tale da permettere all’elettore di verificare se l’eletto rispetta gli impegni presi nel momento in cui non era ancora eletto, ma candidato.
Dato che l’eletto non rappresenta l’elettore, ma l’intera comunità, non dovrebbe trattarsi di impegni ad attivarsi per assecondare gli interessi di una persona o di un gruppo ristretto. Tarcisio Pacati, deputato nelle due prime legislature della Repubblica Italiana, soleva dire, a chi gli chiedeva favori in cambio del voto: “Non posso promettere nulla, e certamente non in campagna elettorale”.
Altri vettori della leadership riflessa degli eletti, che esprimono la responsabilità politica degli eletti nei confronti dei cittadini in modo da permettere a questi ultimi di esercitare un controllo sugli eletti (e sull’amministrazione che ne esegue le direttive), sono:
- la responsiveness, cioè il fatto che i rappresentanti politici devono conoscere i problemi e i bisogni della società, della comunità che rappresentano, e operare scelte che rispondano a questi problemi e bisogni. Idealmente, rispondere in modo congruo alle istanze del maggior numero, di chi ha più bisogno, nel caso in cui sia necessario allocare risorse limitate, e non scegliere di soddisfare i bisogni degli amici, dei “poteri forti”, o i propri interessi personali;
- l’accountability, cioè il fatto, per gli eletti di rendere conto agli elettori delle scelte fatte, dell’uso delle risorse, delle decisioni prese. Per rendere l’accountability effettiva è necessaria la trasparenza: come possono i cittadini controllare l’operato degli eletti se non sanno ciò che essi fanno? Trasparenza attraverso l’informazione disponibile sui siti delle istituzioni pubbliche, e trasparenza attraverso i mezzi di informazione, la cui missione è rendere un servizio, attraverso la critica e la verità, alla collettività, e non agli imprenditori che spesso ne detengono la proprietà ed ai loro interessi.
2.4. Per riassumere
La figura 3 sintetizza le relazioni di mutua influenza tra eletti ed elettori nella leadership politica.

3. Nascita e morte della leadership politica
3.1. Nascita della leadership politica: la leadership come scelta
Dato che la leadership è un processo (in cui si esercita influenza su un gruppo per orientarlo verso obiettivi comuni) e non una posizione (di comando, di potere), essere leader è una scelta.
La leadership nasce quando una o più persone decidono di compiere questa scelta.
In campo politico, tutti – non solo gli eletti, o il capo di un partito o del governo – possono fare questa scelta, dato che, come abbiamo visto, tutti possono essere leader in un certo momento e in determinate situazioni.
Il primo passo, nella scelta di essere leader, di esercitare la leadership, consiste nel decidere di smettere di “considerarsi vittima delle circostanze, e di contribuire a creare nuove circostanze”[8].
Il contrario della leadership, infatti, non è la followership, è il vittimismo. Chi si ritiene vittima rinuncia ad esercitare l’influenza che potrebbe esercitare, quindi ad essere leader nella sfera in cui potrebbe esserlo. Come vedremo, un’attitudine di vittimismo da parte dei cittadini ha conseguenze molto negative sull’esercizio della leadership politica.
La scelta degli eletti di diventare leader avviene in genere in un momento determinato. Idealmente, è il momento in cui un comune cittadino si rende conto di un problema cui la politica non ha saputo rispondere, di un’istanza che non ha trovato rappresentanza, e sente la chiamata – una vera e propria vocazione alla leadership politica – a attivarsi lui, o lei, per risolvere quel problema, e decide di farlo[9]. L’impegno politico di Lucia Fronza Crepaz, deputata per due legislature a cavallo del 1990, è nato quando, giovane mamma, si è accorta che i marciapiedi della sua città erano troppo alti, e non permettevano alle carrozzine di accedervi agevolmente.
Così succede anche per la scelta di chi decide di impegnarsi per un bene più grande, per la vocazione a “fare politica” pur senza essere eletto: Il 7 giugno 1893, il giovane avvocato Mohandas Karamchand Gandhi, buttato fuori dal treno, solo perché indiano e benché avesse in tasca un biglietto di prima classe, alla stazione sudafricana di Pietmaritzburg, decide di oltrepassare il sentimento di vendetta per l’affronto subito, di dimenticare il suo dolore personale, per farsi carico dell’atroce discriminazione che subiscono, in quel paese africano, i suoi connazionali[10]. Diventerà così il paladino della causa indiana, fino a guidare la lotta per la liberazione dell’India dal giogo coloniale britannico. Però, forse, Gandhi non sarebbe diventato il Mahatma senza l’episodio della stazione di Pietmaritzburg.
3.2. La morte della leadership politica del cittadino
La crisi della leadership politica del cittadino è collegata al concetto contrario a quello di leadership, il vittimismo: il cittadino che si sente vittima, impotente di fronte agli eventi ed ai giochi di potere degli eletti, abdica alla sua funzione di leader originario, rinuncia a esercitare l’influenza che è intrinseca alla quota di sovranità che, in quanto cittadino, gli appartiene.
Le forme di questa rinuncia sono varie:
- la rinuncia ad informarsi. Informarsi è un’operazione piuttosto dolorosa, soprattutto in un paese come l’Italia, in cui i mezzi tradizionali d’informazione (giornali e televisione) appartengono a imprenditori, gruppi di potere o a chi è momentaneamente al governo, e quindi tendono a dare notizie o a esprimere opinioni funzionali non tanto alla verità, quanto agli interessi dei gruppi che gestiscono tali mezzi d’informazione;
- la rinuncia al voto, sia nella forma dell’astensione, sia nella forma del voto di protesta, votando per partiti di cui è chiara la posizione “contro”, ma molto meno chiare sono le proposte per il bene comune;
- la rinuncia a partecipare, ad esercitare un ruolo nella dimensione politica che non sia il semplice esercizio del voto, per esempio l’impegno in un’associazione che si occupa di problemi del territorio, la partecipazione ad una scuola di formazione politica, l’adesione ad un partito o ad un movimento politico;
- la rinuncia ad esercitare il controllo su chi governa (che, non dimentichiamolo, governa sempre per conto dei cittadini). Le forme di questo controllo sono varie: dal voto ad un’altra formazione politica, per punire chi ha governato male, alla firma di una petizione, alla verifica dell’attività degli eletti sui siti delle istituzioni cui appartengono (per esempio, i siti di Camera, Senato, Parlamento europeo dettagliano l’attività di ogni singolo parlamentare in corso di legislatura), alle lettere all’eletto o ai mezzi di comunicazione per denunciare comportamenti scorretti (per esempio l’assenteismo in aula).
Ogniqualvolta si considera vittima, il cittadino non è in realtà più cittadino ma suddito. Accetta passivamente tutto quanto gli eletti decidono per conto suo, senza neanche sapere cosa decidono e per quali motivi lo fanno. Non ha più alcuna influenza, nessuna possibilità se non quella di accettare supinamente, come succedeva ai sudditi delle monarchie assolute.
In particolare astenendosi dal voto, i cittadini rinunciano a influenzare attraverso l’esercizio di un attributo fondamentale della sovranità popolare quale è il voto. Ciò facendo, in una sorta di trasferimento della sovranità non verso l’alto (dal cittadino al rappresentante politico) ma in orizzontale (verso altri cittadini), invece di influenzare subiscono l’influenza di altri: i cittadini votanti, che decidono anche per chi si astiene (e che questi ultimi neppure conoscono, quindi di cui non si possono fidare perché mancano completamente le condizioni per la fiducia).
La leadership politica del cittadino muore: se i cittadini si considerano sudditi, gli eletti sono liberi di fare quello che vogliono, non quello che devono, cioè operare scelte che perseguano il bene comune.
3.3. La morte della leadership politica dell’eletto
C’è una morte buona della leadership politica dell’eletto: quando, finito il suo mandato o, avendo promesso di farlo in seguito ad una sconfitta politica importante, il politico si fa da parte, lasciando il posto ad altri, e mette la sua esperienza, in nuove forme (preferibilmente non posizioni in imprese private o conferenze da esse profumatamente pagate), a servizio della società, non più come eletto ma da cittadino che ha avuto un’esperienza diretta delle istituzioni. La vera eredità del leader – anche il leader politico eletto – è creare altri leader, suscitare vocazioni alla leadership, non la consunzione nel ruolo.
Una prima cattiva morte del leader politico eletto è quando, avendo detto la sua parola, compiuto la sua missione, si aggrappa alla poltrona, e diventa un pericoloso relitto alla deriva. Il potere, una volta gustato, può inebriare: conosciamo bene in Italia il cancro dell’attaccamento al potere, mentre, in altri Paesi, leader politici anche giovani, dopo essere stati capi del governo, lasciano la politica attiva dopo una sconfitta elettorale.
Una seconda cattiva morte del leader rappresentante politico è anche quando, invece di essere eletto, è, grazie a leggi elettorali che privano i cittadini del potere di scegliersi i rappresentanti, nominato dai capipartito, lasciando agli elettori l’unica apparente libertà di mettere una croce accanto al simbolo di un partito. La leadership politica del rappresentante muore perché egli, invece di rispondere e rendere conto ai cittadini, deve rispondere e rendere conto a chi lo ha inserito in posizione utile sulla lista, pena la perdita del potere al prossimo giro. La leadership politica muore perché l’eletto-nominato non segue una vocazione “alta” che lo ha chiamato ad occuparsi dei problemi della collettività, ma si mette a servizio di un padrone. E perché, se in tal modo eletto, invece di esercitare il potere che gli è conferito nell’interesse generale della comunità, sarà obbligato ad agire nell’interesse transitorio di chi si trova ad essere a capo del partito nel momento in cui si formano o si formeranno le liste. E quali interessi persegue il capopartito di turno? Chi li verifica?
Una terza cattiva morte del leader rappresentante politico è quando non svolge, o non svolge più, il suo ruolo, che è quello di operare scelte nell’interesse di tutti, in vista del bene comune (leadership è orientare l’azione collettiva verso obiettivi “comuni”, non particolari né individuali). La buona leadership politica degli eletti muore quando essi fanno scelte di parte, favoriscono pochi, avvantaggiano chi ha già risorse (e magari è in grado di garantire loro il perpetuarsi del potere), invece di chi ha più bisogno. Ancor più muore quando gli eletti fanno scelte autoreferenziali, orientate al mantenimento dei privilegi di casta, alla conquista o alla preservazione del potere fine a se stesso, al prestigio personale.
3.4. Per riassumere
La figura 4 sintetizza le possibili patologie delle relazioni di mutua influenza tra eletti ed elettori, in cui ognuno dei vettori di influenza tra leader e follower della leadership politica può entrare in crisi.

3.5. La (possibile) resurrezione della leadership politica
Mi sembra siano necessarie quattro condizioni, per permettere alla leadership politica di risorgere laddove è morta.
La prima è l’educazione individuale e collettiva: cittadini che abbiano a disposizione strumenti educativi (non necessariamente educazione politica, ma anche storica, artistica, metereologica, …) e l’interesse a farne uso ad un certo punto alzano lo sguardo dal proprio particulare e sentono la casa comune (fino alla casa di tutti, il pianeta, la comunità umana universale) come casa propria. L’educazione, l’informazione, la conoscenza permettono di interessarsi veramente ai problemi complessi della politica, cercare di capirli, rendersi conto quando chi governa – o chi dall’opposizione contesta – prende cantonate…
La seconda condizione è l’esistenza di una sana sfera pubblica, dove sia possibile dibattere, far emergere idee, vagliare proposte. Il ruolo dei media nel rendere possibile, mantenere e far crescere questa sfera pubblica è primordiale. Media cui si richiede una buona dose di castità: non servilismo al potere politico e ai potentati economici, ma servizio alla verità; servizio, quindi, alla collettività.
La terza condizione sono partiti sani, per cui la legalità non sia solo uno slogan, che siano capaci di espellere (loro, non la magistratura) le mele marce e facciano emergere candidati competenti e onesti.
La quarta è un rapporto diretto e funzionante tra elettori e eletti, che obblighi questi ultimi a rendere conto, permetta il controllo del loro operato e, quindi, il premio (rielezione) o la punizione (mandarli a casa).
[1] Robert B. Denhardt e Janet V. Denhardt, The Dance of Leadership: The Art of Leading in Business, Government, and Society, Armonk, M.E. Sharpe, 2006, p. 19.
[2] Peter G. Northouse, Leadership. Theory and Practice, 8th Edition, Los Angeles, Sage, 2019, p. 5.
[3] Robert B. Denhardt, In the Shadow of Organization, Pittsburg, University Press of Kansas, 1981, p. ix-x).
[4] Una teoria sulla leadership, la Leader-member exchange (LMX) Theory, concepisce la leadership come “un processo incentrato sulla interazione tra leader e follower”, facendo della relazione diadica tra leader e follower il punto focale del processo di leadership (Northouse, Leadership, cit., p. 139).
[5] M. Uhl-Bien, R. R. Riggio, R. B. Lowe, and M. K. Carsten, “Followership Theory: A Rewiew and Research Agenda”, The Leadership Quarterly 25 (2014) 83-104.
[6] Esistono altre forme di legittimità dell’esercizio del potere politico diverse dalla rappresentanza, che si applica agli eletti. È il caso, per esempio, dei membri della Commissione europea, designati non per essere rappresentanti degli Stati membri (il Consiglio dell’Unione europea è l’istituzione che rappresenta i governi) o dei popoli europei (rappresentati dal Parlamento europeo), ma per incarnare, in virtù della propria indipendenza e competenza, l’interesse generale dell’Unione.
[7] Le leggi elettorali possono prevedere che non siano i cittadini a scegliere gli eletti, attraverso un voto uninominale o di preferenza, ma le segreterie di partito, tramite liste bloccate.
[8] Peter Senge, introduzione a J. Jaworski, Synchronicity: The Inner Path of Leadership, San Francisco, Berret-Koehler, p. 3.
[9] Bennis e Thomas chiamano queste esperienze, che trasformano in leader persone sino ad allora ordinarie, “crogioli” (crucibles), dal nome del recipiente che gli alchimisti medievali usavano nei loro tentativi di trasformare vili metalli in oro [Warren G. Bennis e Robert J. Thomas, “Crucibles of Leadership”, Harvard Business Review 80(9):39-45, 124, October 2002].
[10] Mohandas K. Gandhi, La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma, 1973, pp. 93‑94.