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Dipendenze: schiavitù o eccesso di libertà?

Fabio Frisone*

Edgar Degas, L’assenzio.

Il tema della dipendenza, sin dalla sua terminologia, ha portato con sé un significato inequivocabile, a tal punto che per indicare tale fenomeno in inglese si adopera persino la parola addiction, che deriva dal latino addictus, denominazione utilizzata per indicare uno stato di schiavitù. Ma siamo del tutto sicuri che chi fa uso di sostanze stupefacenti o uso spropositato di un comportamento quale, ad esempio, il gioco d’azzardo (American Psychiatric Association, 2013), debba essere rappresentato come uno schiavo? Per indagare veramente un fenomeno, si ritiene essenziale cominciare a domandarsi perché lo si denomini in un modo piuttosto che in un altro.

Rispetto al tema della dipendenza, dunque, volendo porsi un simile interrogativo si arriva a cogliere che, in fondo, si utilizza dipendenza o addiction perché si pone al centro dell’attenzione la sostanza o il comportamento che ha portato la persona a reiterare la condotta.

Ma da dove viene questa visione? Tale interrogativo porta a diverse considerazioni.

Anzitutto, si arriva a comprendere che se, allo stato attuale, chi fa uso di sostanze stupefacenti, abuso di alcol o esercizio spropositato di un comportamento viene paragonato ad uno schiavo, ciò deriva dalla visione del mondo scientifica. Attraverso il metodo delle scienze naturali, infatti, viene data una forte risonanza a tutti i dati ricavabili empiricamente, dunque l’attenzione viene per lo più posta sull’effetto psicofisiologico di una sostanza o sulle sollecitazioni impulsive, piuttosto che sulla persona coinvolta in tale dinamica.

Questo modo di vedere la realtà, però, potrebbe non risultare l’unico. A tal proposito Thomas Szasz, professore emerito di psichiatria, mettendo in dubbio la concezione della psichiatria classica rispetto alla questione della dipendenza, nel suo testo Il mito della droga fa luce sulle effettive differenze che risulta possibile cogliere quando un medesimo fenomeno viene interpretato alla luce di una visione del mondo (religiosa) piuttosto che un’altra (scientifico-naturale ): “con la trasformazione della prospettiva religiosa sull’uomo in prospettiva scientifica  […] si verificò uno spostamento radicale di accento da una visione dell’uomo come agente responsabile nel mondo e nei confronti di esso verso una visione dell’uomo come organismo reattivo sottoposto a ‘forze’ biologiche e sociali. In questo processo, la retorica e il vocabolario della morale furono sostituiti dalla fantasia biologica e dalla metafora psichiatrica. La tentazione – a cui si può resistere o soccombere – è stata soppiantata da pulsioni, istinti e impulsi – che si possono soddisfare o frustrare. La virtù e il vizio sono stati trasformati in salute e malattia” (Szasz, 1977, p. 159).

Attraverso tale riflessione, si nota dunque che se oggi il tema della “dipendenza” viene osservato esclusivamente con queste lenti, lo si deve al dominio della visione scientifico-naturale, che ha indirizzato anche le cosiddette scienze di confine quali psichiatria e psicologia (Borgna, 2002) a valutare tali fenomeni mediante una prospettiva fondata prevalentemente sulle sollecitazioni impulsive. Aderire incondizionatamente a tale scenario senza premurarsi di coglierlo anche per mezzo di altre prospettive, però, rischia per diversi motivi di offuscare la complessità del fenomeno.

Considerazioni psicologiche antiriduzionistiche

Uno dei motivi per i quali si consiglia di non interpretare il fenomeno della dipendenza solo attraverso lo sguardo della scienza naturale, sta nel fatto implicito che tale scienza non deve (perché non può) avere l’opportunità di valutare una persona nella sua interezza. Pur riconoscendo i preziosi contributi che la scienza naturale, in particolare la psicofisiologia, dona in merito alla possibilità di rilevare le sollecitazioni impulsive o gli effetti di una sostanza o di un comportamento su qualcuno, occorre mettere in luce che non risulta prerogativa del metodo scientifico cogliere l’intenzionalità di una persona (cioè il perché qualcuno decide di mettere in atto una condotta) né la sua apertura “trascendentale”, ossia quel tipo di apertura che lo psicopatologo e filosofo Jaspers (1978) individua per sottolineare le molteplici possibilità di senso che la persona ripone nelle  proprie condotte. Il limite metodologico della scienza naturale dovrebbe indurre, quindi, soprattutto psicologia e psichiatria a non attestarsi su questo livello per analizzare il fenomeno, anche perché, come direbbe lo stesso Jaspers (1978, p. 16), “la scienza sa, ma non sa il senso del suo sapere”.

Un altro aspetto sul quale occorre riflettere sta nel fatto che, come si è visto in precedenza, non sempre al fenomeno della dipendenza si attribuisce il medesimo significato. A tal riguardo, prima dello sviluppo della scienza naturale, in epoche differenti a certe sostanze veniva riconosciuta una dimensione per lo più ritualistica; ad esempio, le stesse si utilizzavano per tentare di mettersi in contatto con ciò che veniva ritenuto divino. Vi era una concezione, dunque, il cui centro di interesse, più che l’effetto fisiologico della sostanza, era costituito dalla persona: per questo si cercava di cogliere i significati che la stessa provava a ricavare dal suo stato di alterazione della coscienza.

Anche ai giorni nostri è possibile notare come all’interno di alcuni Stati si trovino territori di popoli nativi ai quali viene riconosciuta una certa autonomia nel mantenimento dei riti tradizionali, a tal punto che i nativi possono fare uso di sostanze ma, immediatamente fuori dal loro territorio di appartenenza, ciò risulta vietato. Dato che molte sostanze sono addirittura le stesse, sembra che a cambiare, più che altro, sia il significato che ogni visione del mondo attribuisce a tali condotte. Ma alla luce di ciò, possono psicologia e psichiatria restare prevalentemente ancorate ai risultati messi in luce dalla psicofisiologia?

Allo stato attuale, probabilmente, la psicologia, così come la psichiatria, dovrebbero evitare di restare intrappolate all’interno della logica positivistica, che annovera solo ciò che emerge dall’evidenza empirica. Sganciandosi da tale impostazione, infatti, le scienze di confine riuscirebbero a dare maggior importanza al fatto che i i fenomeni che appaiono in un determinato modo, in realtà si mostrano così soprattutto perché determinati dalla definizione che abbiamo loro conferito, la quale ha permesso di  circoscriverli e inquadrarli all’interno della nostra visione del mondo. Tenere questo in considerazione può, in effetti, aiutare psicologia e psichiatria a mettere in discussione tutta una serie di interpretazioni sui fenomeni che si pensava fossero i fenomeni stessi.

Riuscire a far questo può forse aiutarci a comprendere che concepire la dipendenza soltanto come una forma di schiavitù, tutela e legittima le istituzioni pubbliche ad avere pieno potere decisionale sulla vita di queste persone; però, se provassimo a chiederci cosa sia veramente il loro bene, forse noteremmo che non sempre l’etichetta di “dipendente” contribuisce al miglioramento della loro vita, se non si limita ad indicare una patologia effettivamente presente, ma si espande, erroneamente, ad identificare la persona con la propria patologia.

Inoltre, interrogarsi non solo sugli effetti psicofisiologici che potrebbero scaturire da una sostanza o dalla messa in atto di un comportamento, ma anche su cosa voglia dire fare il bene della persona che si trova coinvolta in tali dinamiche, potrebbe generare interpretazioni persino opposte a quanto si era soliti pensare.

A tal riguardo, infatti, potrebbe rivelarsi che queste persone, prima ancora di essere paragonate a degli schiavi perché in balìa dei loro impulsi, risultino in realtà alla ricerca di una libertà che le sciolga da costrizioni che avvertono come insostenibili o dall’assumere responsabilità di cui non trovano il significato.

Ponendola in questi termini, ossia provando a tenere al centro dell’attenzione la persona, forse avremmo modo di notare che chi aderisce a tali condotte non risulta poi così limitato da ridursi schiavo di una sostanza, ma prova a tal punto disinteresse per la propria vita che nulla risulta più appagante di quel rifugio offerto da una sostanza – come nei casi di tossicodipendenza – o da un’attività – come nei casi di ludopatia.

Resta da chiederci se noi facciamo veramente il possibile per rendere più interessante la vita di chi sembra disposto a giocarsi tutto nel mero presente perché privo sia di un passato significativo che della speranza di un soddisfacente progetto futuro,

Bibliografia

  1. American Psychiatric Association. Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-5®). American Psychiatric Pub, 2013.
  2. Borgna, Eugenio. Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica. Feltrinelli, 2002.
  3. Jaspers, Karl. Filosofia. Utet, 1978.
  4. Szasz, Thomas S. Il mito della droga: la persecuzione rituale delle droghe, dei drogati e degli spacciatori. Feltrinelli, 1977.

Fotografia: Edgar Degas, L’assenzio.

*Fabio Frisone, sociologo, è dottorando di ricerca in Scienze cognitive nell’Università di Messina

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