
LEADERSHIP POLITICA/4
Il leader e la vittima
di Feliciano Tosetto
Nel suo articolo Paolo Giusta mette in luce come il contrario della leadership sia il vittimismo. Compendiando una rapida variantistica dei principali dizionari alla voce “vittimismo”, possiamo dire, escludendo minuzie salienti solo ad uno sguardo sinottico, che esso sia l’inclinazione a considerarsi sempre oppresso, perseguitato, osteggiato e danneggiato da persone e circostanze, a lamentarsene e, a volte, anche a compiacersene. Le varie accezioni procedono dalla disposizione d’animo romantica opposta al titanismo fino al suo significato patologico, che secondo l’oggettivazione proposta dalla moderna psichiatria sarebbe l’atteggiamento di costante ricerca di situazioni in cui poter soffrire, compatirsi, e cercare simpatia.
Chiaramente, nella misura in cui l’influenza che caratterizza il leader è una scelta di responsabilità, il delegare ad un locus esterno, ovvero rinunciare alla responsabilità, (Holder e Levi, 2006) il proprio agire politico vuol dire rinunciare al proprio ruolo di leader. Tuttavia nelle dinamiche politiche è sempre più presente quello che potremmo chiamare un vittimismo attivo che, se ad un primo sguardo sembra rispondere ad una chiamata alla leadership, di fatto non risponde alla vocazione della politica. L’analisi sociologica ed antropologica, alla fine degli anni Ottanta si è arricchita di uno strumento di analisi chiamato intersezionalità (Crenshaw, 1989) per descrivere l’intersezione tra diverse identità sociali relativamente al tipo di discriminazione e oppressione. Poiché gli studiosi formatisi nell’ambiente accademico statunitense furono i primi ad utilizzare questo concetto, gli assi lungo il quale si è dipinta la differenza sono stati quelli rilevanti alla sensibilità nordamericana: il genere, la razza, la classe sociale e l’orientamento sessuale. Da un lato, questo strumento teorico può essere utile per indagare le disuguaglianze e le violenze strutturali, restituendo in parte la loro natura multicausale. Tuttavia, ha avuto anche l’effetto di dare vita ad una “moneta” di rivendicazione politica. Infatti non c’è dubbio che molte rivendicazioni su base di razza o genere sono state importanti e hanno messo in moto processi verso una maggiore libertà e considerazione politica cercando di valorizzare le differenze. Purtroppo il sentiero che queste dinamiche stanno prendendo negli ultimi anni non va verso un’uguaglianza fraterna dove la diversità è una risorsa per la vita pubblica: non ci si riconosce nel contributo che si può dare agli altri ma ci si afferma in aperto contrasto con il diverso.
Infatti l’intersezionalità ha prodotto una lettura della realtà come se fosse fatta da individui che sono isole di esperienza incomprensibile da chi è posizionato diversamente. Individuati, legittimati e riconosciuti socialmente in quanto partecipanti di genere, razza e classe questo ha dato origine all’ utilizzo dello specifico posizionamento come moneta politica che si è tradotto in politiche identitarie forti. Identità che si basa spesso sulla naturalizzazione delle differenze e su una enfatizzazione dell’alterità (Remotti, 2012). Così facendo, la parità e lo squilibrio sociale risultano essere ancora più difficili da risolvere. Anche in chiave analitica c’è il rischio di forzare le differenze anche quando non siano così pertinenti e a rinchiudere le persone nel loro posizionamento. Reificare le persone pensando in termini di “gli italiani pensano che…” o “le afroamericane donne pensano che…” fino al “non potremo mai capire cosa pensano gli arabi musulmani perché non lo siamo” finendo per oggettivare le persone in isole di solipsismo. Il processo di utilizzare il proprio posizionamento come moneta politica ha assunto una tale importanza da essere battezzato con un nome proprio: all’atto di nascita si legge “Olimpiadi dell’oppressione”. Con questa espressione si dà conto alla gara in corso per avanzare nei ruoli gerarchici creati dalla weltanschauung prodotta dall’idea di intersezionalità. La gara tra i gruppi oppressi consiste quindi nel rivendicare chi è la vittima a cui il sistema infligge più violenza. Questo non fa che consolidare i confini tra le persone e non può risolvere l’oppressione perché una volta risolta gli individui del gruppo oppresso perderebbero la loro legittimazione politica. Questo però mobilita le masse e i gruppi che entrano in questa dinamica sono in crescita.
Ma allora è il vittimista che si fa leader? La morte della leadership per vittimismo, secondo Giusta, avviene quando il cittadino non si informa, non vota e non partecipa alla vita politica. Ma chi è catturato in queste dinamiche di fatto non rinuncia ad informarsi, ma sceglie le fonti di informazione che lo aiutano nella sua legittimazione politica e rafforzano il suo status di vittima; vota attivamente non per il bene comune, ma per far valere le sue rivendicazioni; partecipa attivamente in numerose forme: con manifestazioni, formazione e sensibilizzazione rivendica il diritto di influenzare le decisioni del governo. Il vittimismo come un virus latente fa sopravvivere la leadership per poter infettare la politica trascinandola verso la morte. Il sintomo più evidente è la cooptazione della solidarietà da parte dell’individualismo, ovvero i gruppi sono tenuti insieme non da un progetto comune ma dal vantaggio che da l’appartenenza al gruppo rispetto alle loro istanze personali. In questo modo non è più possibile avere una visione d’insieme della collettività e del bene comune fulcro della politica in cui Giusta identifica lo scopo della leadership. Infatti, laddove la comunità si basa esclusivamente o prevalentemente su una comune identità come “vittime”, e quindi intrinsecamente su un’alterità rispetto ad un contesto dove chi non è vittima è oppressore, non è più possibile una concezione del bene comune propriamente detto, che vorrebbe essere bene comune dei “diversi” che costituiscono la comunità. L’orizzonte si limita invece a ciò che si percepisce farebbe bene al proprio piccolo gruppo, o addirittura solo a se stessi, magari anche a scapito di collettività più ampie o di altri gruppi che vivono condizioni di fragilità, ma che non riescono a salire sul podio delle ”Olimpiadi dell’oppressione”. L’auto-compiacimento e il conseguente processo di creazione di alterità è l’elemento che distingue la solidarietà di un gruppo che si unisce per una causa comune (come può essere la liberazione di un popolo, internamente plurale, dall’oppressione) e un gruppo che mette in atto il vittimismo. L’alterità prodotta dal crogiolarsi politico nel vittimismo crea un gruppo definito esclusivamente dal vittimismo e che per questo esclude tutti coloro ai quali la qualifica di vittima non viene riconosciuta. Il vittimismo che occulta la ricchezza della pluralità dietro l’illusione dell’impossibilità di comprendere le esperienze altrui uccide il dialogo, base della democrazia, e nullifica i potenti strumenti che la comprensione reciproca e la fraternità potrebbero altrimenti fornire alla politica per la risoluzione dei problemi strutturali della collettività. Una leadership sana, fondata sul dialogo e orientata verso il bene comune non può essere la leadership basata sul vittimismo, non solo perché esso mette a tacere le coscienze, quanto piuttosto perché ne può creare di pseudopolitiche. Questo avviene quando il sé si sostituisce alla comunità, e la diversità è intesa come barriera impenetrabile anziché come una ricchezza da cui attingere, costruendo insieme, per quanta fatica e lavoro costante ciò comporti.
Bibliografia
- Crenshaw, Kimberlé. «Demarginalizing the intersection of race and sex: A black feminist critique of antidiscrimination doctrine, feminist theory and antiracist politics». The University of Chicago Legal Forum. 1989, 139.
- Holder Elaine E., Levi Daniel J. «Mental health and locus of control: SCL-90-R and Levenson’s IPC scales». Journal of Clinical Psychology, Vol. 44, 5, 2006, pp. 753–755.
- Remotti, Francesco. Contro l’identità. Roma-Bari: Laterza, 2012.