



LEADERSHIP POLITICA/2
La questione del comando
Una riflessione sul contributo di Paolo Giusta intitolato Cenni sulla leadership politica
di Fabio Frisone
Non è facile ragionare sul concetto di leadership. Tutte le volte che si tenta di darne una spiegazione univoca si ha subito l’impressione di aver trascurato qualcosa. Forse è per questo che risulta utile mettere in luce almeno le macro-differenze che contraddistinguono la logica del comando. A tal riguardo, Licciardello (2015) riporta una tripartizione relativa agli eterogenei modelli di leadership. Riflettendo sulle differenze tra leadership autoritaria, democratica e laissez-faire, si riesce ad intuire già dalle rispettive definizioni i connotati dell’una o dell’altra logica di comando. La leadership autoritaria viene spesso sostituita dal termine headship, offrendoci l’opportunità di immaginare come, in questo caso, i rapporti tra leader e seguaci non si discostino più di tanto rispetto a quelli di un capitano con la sua ciurma. Non sorprendese uno scenario del genere si caratterizzi per le cosiddette dinamiche di dipendenza/contro-dipendenza, in cui ciò che importa non è tanto ciò che si fa o si dice, ma chi una cosa la fa o la dice: il peso del capitano è ben diverso da quello degli altri.
Tale tipo di dinamica nella leadership democratica viene sostituita dalla dinamica dell’interdipendenza, in cui eventuali dissensi non vengono rivolti alla persona, ma all’azione da lei compiuta. Nella leadership laissez-faire, invece, la permissività di chi sta al comando si contraddistingue per un tipo di dinamica passiva, che rischia di lasciar uno spazio a tal punto grande da permettere ad altri di riorganizzare il gruppo nella speranza che aumenti la propria funzionalità.
Si ritiene opportuno tenere conto di tali differenze anche per tentare di ripercorrere le riflessioni di Giusta ed i possibili significati sottesi alla definizione di Northouse (2016) secondo cui “la leadership è un processo attraverso il quale una persona influenza un gruppo di persone per raggiungere un obiettivo comune” (p. 6).
Se, innanzitutto, provassimo ad intendere la leadership come un processo, per osservare veramente la sua dimensione fluttuante avremmo bisogno di: 1) non trovarci all’interno di dinamiche di dipendenza/contro-dipendenza, dal momento che queste, piuttosto che favorire una dimensione processuale, tentano di cristallizzare l’autorità di chi si trova al comando; 2) favorire le condizioni attraverso cui ha modo di esprimersi la dinamica dell’interdipendenza che, piuttosto che sulle posizioni, si incentra sui possibili capovolgimenti di ruolo decretati dalle eterogenee situazioni. Avere la possibilità di apprezzare la leadership nella sua prospettiva fluida richiede, dunque, che il focus resti ancorato ai contenuti e alla qualità degli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere, piuttosto che alle persone coinvolte in tale processo.
Non c’è leadership senza influenza. Probabilmente la conditio sine qua non per riflettere sul fenomeno della leadership sta in questa peculiarità. È vero, come osserva Giusta, che per esercitare la leadership occorre non considerarsi vittima, ma risulta altrettanto vero che, forse proprio per evitare di cadere nello spazio relazionale riservato alle vittime, spesso si scelgano delle vittime al fine di ottenere una maggior influenza sul resto del gruppo. Numerosi, a tal proposito, risultano gli esempi. La possibilità di selezionare un capro espiatorio contro cui additare certe responsabilità negative la ritroviamo, ad esempio, nel celebre romanzo di Golding, Il signore delle mosche, e contraddistingue anche le riflessioni scaturite dall’antropologia filosofica di René Girard: l’interpretazione della cultura occidentale che emerge nel suo testo La violenza e il sacro mette, in effetti, in luce, come il sacrificio della vittima espiatoria possa giocare un ruolo fondativo persino per la nascita della civiltà.
Il fatto che il capro espiatorio funga da elemento catalizzatore riguarda anche la realtà sociale più recente. A tal proposito, alcune ricerche (Dollard et al., 1946; Hovland & Sears, 1940; Miller & Bugelski, 1948) hanno osservato l’esistenza di un’interessante associazione legata al prezzo del cotone e al numero di linciaggi di neri nel periodo 1882-1930, mostrando che l’aumento del prezzo del cotone contribuiva a riversare la frustrazione su chi avesse assunto il ruolo di capro espiatorio.
Tale fenomeno è possibile rintracciarlo in gruppi eterogenei, sia per dimensione che per finalità. Poiché esso riveste un ruolo funzionale per la salvaguardia di un gruppo unito, permette di dare un volto a ciò che, per sua natura, non ne ha: l’angoscia. Come osserva Spaltro (1970), psicologo e autore televisivo italiano, “il capro espiatorio soddisfa i bisogni degli altri membri del gruppo di sperimentare l’aggressività senza paura di essere puniti” (p. 121).
Purtroppo, non ci sono luoghi privi di angoscia, e forse è per questo che il fenomeno ha modo di esprimersi anche nelle realtà aziendali. In tale contesto, comunque, difficilmente si sentirà parlare di capro espiatorio, ma esiste davvero una differenza tra ciò che indica il capro espiatorio e ciò che viene denominato mobbing? Letteralmente, il verbo inglese to mob indica “assalire con violenza” (Ascenzi & Bergagio, 2000, p. 5) e, quando facciamo riferimento al mobbing, con esso indichiamo qualcosa di non dissimile da ciò che abbiamo indicato per riferirci al concetto di capro espiatorio.
Affinché si realizzi, la leadership ha bisogno di almeno un gruppo di persone. Il modoin cui si realizza, dipende anche dalle dinamiche del gruppo. Si sa che oggi un gruppo efficiente ed efficace richiede che la leadership venga riposta non tanto su un condottiero ma sul gruppo in quanto tale, perché grazie a questo tipo di organizzazione si riesce ad affrontare con successo tutte quelle sfide la cui complessità richiede lo sforzo attivo di ciascun membro. Quando ci si trova in un gruppo capace di corrispondere alle esigenze appena descritte, si hanno le carte in regola per parlare di un vero e proprio lavoro di gruppo, che differisce da un semplice lavoro in gruppo, caratterizzato più che altro dall’obbligo di far parte di un nucleo di persone (Spaltro, 1978).
Il lavoro di gruppo produce cultura di gruppo, che a sua volta genera la costituzione di relazioni interpersonali colorite dal riconoscimento reciproco. Un clima di tal genere inevitabilmente riesce ad influire sulla qualità del gruppo, a tal punto che i membri dello stesso, prima ancora di concordare sugli obiettivi da raggiungere, cominciano ad assumere persino caratteristiche psicologiche comuni. Questo fenomeno è stato definito sintalità, e non è un caso che il termine ci richiami alla memoria un altro fenomeno simile mediante il quale alcuni scienziati auspicano che il periodo attuale, piuttosto che caratterizzarsi prevalentemente dai connotati di una pandemia, possa assumere i tratti di una sindemia (Horton, 2020), in cui il popolo (demos), insieme (sin), assicuri coesione per affrontare il comune pericolo del virus.
Un ulteriore spunto emerso dal lavoro di Giusta, sul quale riflettere, è relativo al concetto di leadership politica. Lo stesso Giusta osserva che “tutti possono essere leader in un certo momento e in determinate situazioni”. Tali riflessioni si aggiungono ad altre in cui veniva mostrato come, in effetti, tutti possiamo considerarci leader dal momento che la leadership politica originaria appartiene al cittadino. Su questo punto, a mio avviso, è possibile operare un processo di chiarificazione per evitare alcuni fraintendimenti. Il significato ontologico proposto da Giusta rispetto alla questione della leadership originaria, infatti, permette di riscoprire il fondamento collettivo della sovranità. Se, però, si decidesse di riflettere sull’originarietà a partire dal versante storico e non più ontologico, si noterebbe che non possiamo, effettivamente, sentirci del tutto sicuri che la leadership politica sia veramente appartenuta al cittadino comune. Storicamente, infatti, l’esistenza di una condizione iniziale di effettivo esercizio della sovranità da parte di tutti ha lasciato spazio a numerosi esempi di comando da parte di re e guerre tra casate: questi e altri regimi di tipo verticale hanno caratterizzato la storia antica e sono persino giunti all’epoca attuale. A questo punto, dunque, occorre rilevare che i regimi con governo elitario risultano prevalenti nella storia umana, sia per numero che per durata. A tal riguardo, basterebbe pensare che soltanto nel 1945 il Regno d’Italia ha istituito il suffragio femminile.
Se, dunque, come suggerisce la storia, originariamente la questione del comando è appartenuta a pochi, possiamo davvero escludere che non sia proprio a causa di questo punto di partenza storico che si faccia ancora fatica a sentirsi protagonisti attivi? Non si può prescindere dal fatto che un punto di partenza autoritario crei tuttora una certa influenza sul modo di intendere certi fenomeni, così come tuttavia non possiamo trascurare l’importanza ontologica che caratterizza la leadership politica del cittadino. Forse un possibile punto di incontro capace di ridurre il divario tra leadership ontologica e storica viene rappresentato dalla dimensione pedagogica. In tal senso si potrebbe pensare che, in effetti, originariamente, la leadership politica appartenga al cittadino; ma, per scoprirla (o riscoprirla), occorre educarla, ossia portarla alla luce. E la storia ci suggerisce che non sempre siamo stati capaci di farlo.
Un’ultima questione riguarda la possibile resurrezione della leadership politica proposta da Giusta attraverso quattro condizioni necessarie. La prima ha messo in luce l’importanza dell’educazione individuale e collettiva. In merito a ciò, purtroppo occorre rilevare come ancora oggi lo slogan “con la cultura non si mangia” non possiamo ritenerlo antiquato e obsoleto. Anzi, sembra di trovarci all’interno di un sistema in cui viene richiesto di restare quanto più ignoranti possibile, tranne che per corrispondere alle esigenze richieste dal nostro incarico professionale (Galimberti, 2002).
La seconda condizione si riferisce all’esistenza di una sana sfera pubblica in cui sia possibile dibattere. Anche in questo caso, purtroppo, dobbiamo ammettere che la politica attuale non risulta fondata sul dialogo, né sottratta all’eristica, ossia quella particolare arte argomentativa in cui si prescinde dal fatto che un discorso sia vero oppure falso. Una situazione del genere lascia inevitabilmente esclusi i possibili sentieri percorribili solamente attraverso il dialogo. Per evitare fraintendimenti, però, occorre anche capire cosa si intende con dialogo. Dia-logo, così come dia-volo, presenta un prefisso utilizzato dalla cultura greca anche per esprimere distanza (diavolo è esattamente colui che è più distante da Dio). Quindi non basterebbe neanche dialogare, avremmo bisogno di un dialogo filosofico, ossia tra almeno due persone che si amano e che hanno a cuore la sapienza, quest’ultima in politica riconducibile al concetto di fronesis, che richiama un tipo di saggezza volta ad orientare le scelte per la salvaguardia del bene comune. La terza condizione prevede la costituzione di partiti sani. Ma, anche in questo caso, si fa fatica a reperirne qualcuno.
L’ultima condizione riguarda, infine, la possibilità di un rapporto diretto e funzionante tra elettori ed eletti. Oggi, ammesso che esista, non sembra funzionare neanche questo. Non molto tempo fa, a tal proposito, l’Italia è stata condannata dal Comitato dei diritti umani dell’Onu per non aver autorizzato la raccolta di firme online in sostituzione dei banchetti referendari (Fenaroli, 2020).
Considerato lo stato attuale delle cose, sembra che il soddisfacimento di tali requisiti richieda un’ingente quantità di tempo. Ma allora che fare nell’immediato presente? Iniziare a riflettere sulla questione del comando potrebbe costituire un buon punto di partenza.
Bibliografia
- Ascenzi Antonio e Bergaglio Gian Luigi. Il mobbing. Il marketing sociale come strumento per combatterlo, Torino: Giappichelli, 2000.
- Dollard, John; Miller, Neal E.; Doob, Leonard W.; Mowrer, Orval H. & Sears, Robert R. Frustrazione e aggressività. Firenze: Giunti, 1967.
- Fenaroli, Giorgia.“In Italia il diritto all’iniziativa popolare è negato”, la protesta del comitato Politici Per caso. Cappato: “Autorizzare le firme digitali”, link:
- https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/06/in-italia-il-diritto-alliniziativa-popolare-e-negato-la-protesta-del-comitato-politici-per-caso-cappato-autorizzare-le-firme-digitali/6027791/
- Galimberti, Umberto. Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica (Vol. 12). Milano: Feltrinelli, 2002.
- Girard, René. La violenza e il sacro, Milano: Adelphi, 1980.
- Golding, W. Il signore delle mosche. Milano: Mondadori, 1980.
- Horton, Richard. «Offline: COVID-19 is not a pandemic». Lancet (London, England), 396(10255), 2020: 874.
- Hovland, Carl. I. & Sears, Robert R. «Minor studies of aggression: VI. Correlation of lynchings with economic indices». The Journal of Psychology, 9 (2),1940: 301-310.
- Licciardello, Orazio. I gruppi. Aspetti epistemologici e ricadute applicative. Milano: Franco Angeli, 2015.
- Miller, Neal E., & Bugelski, Richard. «Minor studies of aggression: II. The influence of frustrations imposed by the in-group on attitudes expressed toward out-groups». The Journal of psychology, 25(2), 1948: 437-442.
- Northouse, Peter G. Leadership. Theory and Practice, Los Angeles: Sage, 2016.
- Parker, Glenn M. Il gioco di squadra e i suoi uomini, FrancoAngeli, Milano, 1992.
- Spaltro, Enzo. Gruppi e cambiamento, , Milano: Etas Kompass, 1970.
- Spaltro, Enzo. «L’analisi di gruppo nel comando, nell’insegnamento e nella cura», Psicologia e lavoro, X, pp. 48-49.