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Le radici della cooperazione

Di Fabio Frisone

L’enciclopedia Treccani offre diversi significati legati al termine ‘cooperazione’, tra i quali uno che indica il fatto che si tratti di un’«opera prestata ad altri o insieme ad altri per la realizzazione di un’impresa o il conseguimento di un fine» (Treccani). È bene, quindi, precisare sin d’ora che in questa riflessione il significato che si intende attribuire al termine risulta leggermente diverso. Per affrontare un tema che riguarda le radici della cooperazione, infatti, si ritiene opportuno partire dalle stesse radici del termine: cooperare deriva dal latino cooperari, termine composto da “con” e “opera”, per cui, prima ancora di voler aggiungere un motivo per farlo (conseguimento di un fine), in tale contesto si preferisce riflettere sulla cooperazione indicando con essa il semplice operare insieme.

Potrebbe apparire inappropriato rilanciare questa  prospettiva di cooperazione afinalistica in un’epoca in cui le trame individualistiche sembrano le più collaudate per resistere agli urti provocati dallo stare in società. Eppure, andando a ritroso nella nostra storia, si riesce a intuire quanto le logiche cooperative volontarie siano state decisive per l’evoluzione dell’uomo.

Non sono poche le voci autorevoli che sostengono come «l’evoluzione umana [sia] stata favorita, fin dall’alba dei tempi, dalla particolare capacità che hanno gli individui di interagire gli uni con gli altri» (Ammaniti, 2014).[1]

Ominidi: violenza e cooperazione

Se pensiamo ai primi ominidi e al modo di procacciare il cibo avremo certamente difficoltà a distogliere dalla nostra mente immagini di brutale violenza. Ma se, per un attimo, immaginiamo la caccia dei nostri antenati come quell’evento in cui, dopo aver catturato un grosso animale, sarebbe occorsa anche un’adeguata spartizione per nutrire sufficientemente il gruppo evitando di provocare contrasti al suo interno, allora ci rendiamo facilmente conto di quanto fu necessario affinare al meglio la nostra capacità relazionale (Wilson, 2013, pp. 69-74).[2]

Gli esempi relativi alla funzione collaborativa dell’uomo fin dalle sue origini risultano a tal punto numerosi da farci supporre una certa vocazione relazionale. Alcune teorie, a tal riguardo, fanno luce sulla possibilità che persino la posizione eretta  sia stata adottata per permettere di portare maggiori risorse alimentari a coloro che non partecipavano alla caccia, come anziani, donne e bambini (Lovejoy, 1966, pp. 262-310).[3]

Ulteriore caratteristica in grado di rendere la cooperazione afinalistica dell’uomo un fenomeno unico nel suo genere viene data dal fatto che essa abbia cominciato a verificarsi anche tra non parenti (Cavaleri, 2013, p. 342). Inoltre, se le ragioni legate all’origine della cooperazione avessero avuto come motivazione ultima il mero istinto di sopravvivenza del singolo, probabilmente neanche oggi si sarebbe potuto spiegare perché, sin dagli albori della nostra civiltà, agli anziani veniva assegnato un ruolo preminente per la custodia del gruppo.

Queste riflessioni evoluzionistiche ci conducono ad acquisire maggiore consapevolezza riguardo al fatto che l’essere umano abbia – in maniera quasi inesorabile – beneficiato della dote di protendere verso un tipo di saggezza comunitaria volta alla tutela del bene comune.

Nonostante i macro-cambiamenti avvenuti dall’epoca preistorica, parecchi elementi indicano che avvalersi della logica cooperativa per affrontare la complessità del reale non sembra essere una scelta sprovveduta neanche ai giorni nostri.

Le sfide appaiono molto diverse rispetto a quelle del passato, tuttavia sembra emergere un dato di fatto piuttosto inconfutabile: senza la mutua collaborazione non avremmo di che vivere.

Viene difficile immaginare come sarebbe la nostra vita se non ci fosse quotidianamente un’intensa attività cooperativa: molto probabilmente occorrerebbe rinunciare persino a quei beni che soddisfano le nostre esigenze primarie!

Vantaggi e svantaggi

A onor del vero, tuttavia, non va trascurata neanche l’altra faccia della medaglia: non sempre, infatti, l’altro costituisce una fonte di benessere. Numerosi appaiono gli esempi in cui ci sentiamo stressati proprio a causa delle relazioni vissute.

A questo punto, credo sia lecito porsi una domanda: dato che l’idea di vivere in un mondo slegato dalle relazioni non appare di certo possibile, come possiamo cercare di guardare a queste come fonte di vicendevole ricchezza?

Il consiglio dei nostri antenati di porre la vita in una cornice di collaborazione afinalistica potrebbe risultare ancora valido.

Bibliografia

  1. M. Ammaniti, Noi. Perché due sono meglio di uno, Il Mulino, Bologna 2014.
  2. E. O. Wilson, La conquista sociale della terra, Cortina, Milano 2013.
  3. A. O. Lovejoy, La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano 1966.
  4. P. A. Cavaleri, Il dono e il donarsi: una prospettiva psicologica, in «Nuova Umanità», XXXV (2013/marzo-aprile) 207.
  5. Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/cooperazione/

[1] La frase viene citata riprendendo la presentazione del libro di Massimo Ammaniti, Noi. Perché due sono meglio di uno, Il Mulino, Bologna 2014. In particolare, l’autore, nel terzo capitolo, dedica tre paragrafi (La cooperazione umana; Identificazione e alloparentalità; Come siamo diventati umani) che vanno da p. 52 a p. 59 per approfondire il tema.

[2] Wilson affronta questo tema nella seconda parte del suo libro, al capitolo 7, intitolato Il tribalismo è un tratto umano fondamentale, pp. 69-74.

[3] Lovejoy affronta questo tema soprattutto nel cap. 9, La temporalizzazione della Catena dell’Essere, pp. 262-310.

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