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peopleLo spazio del Covid-19: una prospettiva antropologica

di Feliciano Tosetto*

La pandemia che stiamo vivendo è ciò che in antropologia si chiama un “fatto sociale totale”. Marcel Mauss (2011) lo ha per primo definito come un evento significativo per la maggioranza della società e che ha ripercussioni nelle pratiche e nelle credenze di tutti noi. Nel nostro caso, la pandemia ha riconfigurato le nostre pratiche relative allo spostamento e alla comunicazione, ha rotto l’equilibrio tra queste due dimensioni, che l’antropologo Arjun Appadurai individua come le fondamenta della modernità globalizzata (2001). Impediti gli spostamenti a livello globale, l’unico modo di mantenere le relazioni sulle grandi distanze è stato “riconfigurarle” attraverso i media elettronici. Tutto il portato della rivoluzione dei trasporti si è d’improvviso svuotato, per andare a riempire la comunicazione digitale, ed entrambe le dimensioni che ci rendono uomini contemporanei hanno subito una drastica trasformazione: una, la possibilità di spostarsi, è messa a tacere, l’altra, la comunicazione mediata, è portata all’ipertrofia.

Tutto ciò si è tradotto in nuove esperienze dello spazio. C’è chi si è visto rinchiuso durante il lock-down in luoghi troppo ristretti, magari in una convivenza forzata che ha esasperato situazioni critiche già esistenti; altri, invece, hanno potuto continuare a muoversi per lavoro e magari avevano a disposizione un ampio spazio dove muoversi e respirare. L’impatto più esteso della pandemia è stato quello di riconfigurare, in particolare, il modo in cui viviamo gli spazi interpersonali e domestici.

Molti antropologi mettono in luce come il nostro modo di abitare plasmi il modo in cui noi vediamo il mondo (Levi-Strauss, 1992; De Martino, 1951; Bourdieu, 2003). Questa intuizione viene approfondita da Ingold (2004) che vede nell’esperienza abitativa il mezzo attraverso il quale diamo un ordine e un significato alle nostre vite e ci plasmiamo come esseri umani. Questo “plasmare” noi stessi è ciò che Francesco Remotti (2013) chiama antropopoiesi. La peculiare esperienza di spazio domestico che il covid-19 ci ha costretti a fare è importante poiché, se i processi con cui plasmiamo noi stessi sono influenzati dal modo in cui abitiamo lo spazio, una variazione di questo ci orienta verso un diverso modo di dare forma alla nostra umanità.

Abitare è qui inteso nel suo senso più ampio di processo relazionale, di condividere lo spazio della nostra esistenza con gli altri e non si limita quindi alla materialità delle mura domestiche. Siamo passati da una molteplicità e da una libertà di accesso ai vari ambienti (il bar, il centro commerciale, il treno, impianti sportivi ecc.) a dover limitarci a pochi spazi riservati alla nostra sopravvivenza biologica. Stiamo passando dalla relazione con i paesaggi condivisi al ritiro nello spazio privato. Questo ritiro non è una libera scelta di eremitaggio ma, al contrario si trascina dietro le aspettative, i ruoli e le pratiche che abbiamo vissuto negli spazi pubblici e, attraverso il passaggio al virtuale, li porta dentro la nostra vita privata, e sgretola i confini che essa aveva con la vita pubblica. Ci troviamo in case che non ricordiamo più come abitare, indossando la cravatta e la camicia da ufficio, ma per rimanere in camera da letto, sbirciando attraverso il monitor nelle cucine dei colleghi.

La dimensione spaziale infine si riconfigura anche nei modi con cui viviamo le relazioni, nella distanza interpersonale. Viviamo una sospensione di quelli che il sociologo canadese Erving Goffman (2017) individua come “rituali di deferenza e contegno”. Questi infatti, che vanno dal saluto allo sguardo, sono basati su scambi fisici in presenza, in ambienti predisposti, dove la fisicità è essenziale. Ci siamo dovuti reinventare questa dimensione rituale che serve a riconoscere la sacralità dell’altro, traducendoli in un galateo dello smart working dove i diversi ruoli che viviamo si trovano sovrapposti nell’ambiente domestico. Da lontano, nel telelavoro, non è più possibile esprimere la vicinanza comunitaria consueta tramite strette di mano ed abbracci; in questo caso i rituali di deferenza, di contegno, si spostano sul piano verbale.

L’antropologo Edward T. Hall (1990) ha introdotto il concetto di “prossemica”: è lo studio di come usiamo lo spazio interpersonale a scopo comunicativo. Con la pandemia il nostro modo di vivere lo spazio è passato da una prossemica a cui siamo stati socializzati fin dalla nascita ad un mondo dove la prossimità è minaccia di contagio e ci rende tutti esposti al pericolo di infezione.

Siamo alle prese con una riorganizzazione collettiva dello spazio sociale che si traduce in pratiche dell’abitare diverse: ci ritiriamo all’interno delle nostre case per paura, ma anche per responsabilità rispetto ai gruppi sociali più esposti.

Merleau-Ponty (2014) ci ha spiegato che il nostro corpo è, sì, il mezzo con cui viviamo nel mondo, ma è anche il “dispositivo” attraverso il quale abbiamo – o perdiamo – un mondo: si accentua la logica del dentro e del fuori, la sicurezza della casa rispetto al rischio del mondo esterno del contagio; aumenta l’attenzione ad ogni parte “confinante” del nostro corpo e per questo usiamo mascherine, guanti e igienizzante. Il nostro stesso corpo rischia di trasformarci in mediatori del virus, in agenti di contagio: diventiamo indistinguibili dal pericolo dell’infezione.

La dimensione della socialità è costitutiva dell’umano; per questo, per quanto la trasformazione degli spazi ci costringa ad un distanziamento sociale, la nostra creatività rielabora il patrimonio culturale per inventare nuove forme di relazione. Stiamo attenti, perché in questo periodo di reinvenzioni la nostra iniziativa sia guidata da un progetto di umanità che non si fondi sulla paura dell’altro ma sulla responsabilità verso l’altro, non solo come individui ma anche come comunità.

 


Bibliografia
Appadurai, Arjun. Modernità in polvere (Vol. 4). Milano: Meltemi Editore, 2001.
Bourdieu, Pierre. Per una teoria della pratica. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2003.
De Martino, Ernesto. “Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini”. Studi e materiali di storia delle religioni, 23, 1951: 51–66.
Goffman, Erving. Interaction Ritual: Essays in Face-to-Face Behavior. London-New York: Routledge, 2017.
Hall, Edward. T. The hidden Dimension. New York: Anchor Books, 1990.
Ingold, Tim. Ecologia della cultura (Vol. 16). Milano: Meltemi Editore, 2004.
Lévi-Strauss, Claude. Parole date: le lezioni al Collège de France e all’Ecole pratique des hautes études (1951-1982). Torino: Einaudi, 1992.
Mauss, Marcel. Saggio sul dono. Milano: Corriere della Sera, 2011.
Merleau-Ponty, Maurice. Il visibile e l’invisibile. Firenze: Giunti, 2014.
Remotti, Francesco. Fare umanità: I drammi dell’antropo-poiesi. Roma-Bari: Laterza, 2013.

*Feliciano Tosetto è antropologo, impegnato nel “Laboratorio di cooperazione sociale e costruzione di comunità” del Center for Research in Politics and Human Rights (Sophia – La Goccia)
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