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Trieste – Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor, oggi 13 luglio 2020..
(Foto di Paolo Giandotti – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Memoria storica e riconciliazione: due esigenze inconciliabili?

di Fabio Rossi*

L’estate del 2020, ricordata come l’estate a cavallo tra le due ondate di pandemia da Covid 19 che tanto ha segnato l’intera comunità mondiale,  ha registrato – forse con minor attenzione di quanta ne avrebbe meritato – un’ importante iniziativa sotto il profilo storico di Italia e Slovenia, due paesi protagonisti della recente storia europea, nuovamente al centro di un evento che ripropone un quesito complesso e sempre attuale: come conciliare il dovere di mantenere una memoria storica e l’altrettanto legittimo desiderio di superamento di passate pagine tristi e oscure, in vista di una concreta riconciliazione. 

Nel mese di luglio le due più alte cariche istituzionali di Italia e Slovenia si sono infatti incontrate, in un clima di forte commozione ma anche di grande senso di responsabilità, per mettere fine – o forse dovremmo dire inizio – ad una tragica eredità che vedeva i due paesi uniti  da un passato di morte e odio.

Per comprendere il valore dell’incontro, occorre però – in estrema sintesi – ricordare quando successo esattamente 100 anni prima; già dai primi anni del Novecento, Trieste  – città che da sempre è il centro di una cultura cosmopolita e che racchiude in sé diverse minoranze tra cui quella slovena – è divenuta oggetto di disagio per il crescente nazionalismo che vede in questa città un motivo di imbarazzo e di sfida. L’avvento del fascismo accentua tale contrasto, concentrando tutte le attenzioni del nascente regime totalitario nei confronti di quella realtà multiculturale che Trieste rappresenta e che invece va – usando un’espressione particolarmente in voga in quegli anni – “italianizzata”.

Il 13 luglio 1920, in un crescendo di odio e intolleranza, il  Narodni Dom, in lingua slovena Casa Nazionale e di fatto il fulcro culturale e sociale della componente slovena di Trieste, viene dato alle fiamme e con esso anche caffè, negozi e altre attività gestite da slavi; il regime fascista, che già aveva iniziato la sua opera di smantellamento dell’identità culturale di una importante componente linguistica triestina attraverso la chiusura di scuole, i confinamenti e le deportazioni, colpisce con tutta la sua ferocia, come ha ben raccontato lo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor, forse la voce più autorevole e mai doma della resistenza slovena triestina, insignito nell’occasione dalle più alte onorificenze di entrambi i paesi:

«Sulla via Commerciale non era scesa la sera, l’incendio sopra i tetti sembrava venire dal sole che liquefacendosi sanguinava nel crepuscolo. Il tram per Opčine si era fermato, gli alberi nel giardino dei Ralli apparivano immobili nell’aria color porpora. Loro due correvano tenendosi per mano e nell’aria, sopra le loro teste, volavano le scintille che salivano da piazza Oberdan. […] Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: “Viva! Viva!” Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: “Eia, eia, eia!”. E gli altri allora di rimando: “Alalà!”. Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette.»

Quello del Narodni Dom non rimase peraltro un episodio isolato, segnando purtroppo l’inizio di una scia luttuosa che colpì tutti: dai quattro antifascisti di minoranza slava fucilati nel 1930, alla foiba di Basovizza dove furono oltre duemila italiani e tedeschi, tra civili e militari, a morire per mano delle milizie comuniste, nel 1945, durante il periodo di occupazione jugoslava di Trieste.

Il tempo che divide quegli eventi dalle celebrazioni di quest’estate è stato un tempo controverso, fatto spesso di recriminazioni e accuse reciproche, allontanando la possibilità di un incontro tra i due paesi, entrambi duramente segnati da quegli eventi.

Ben si comprende dunque quanto importanti e densi di significato siano stati gli omaggi silenziosi di fronte ai due sacrari, la riconsegna da parte dell’Italia del Narodni Dom e le dichiarazioni di Sergio Mattarella e Borut Pahor; una condivisione delle reciproche ferite, un desiderio di riappacificazione emblematicamente rappresentato da quel prendersi per mano dei due presidenti di fronte al sacrario per le vittime della foiba di Basovizza, un gesto tutt’altro che banale, che rimanda a precedenti importanti , primo fra tutti l’omaggio ai caduti di Verdun nel 1984 da parte dei presidenti di Francia e Germania Ovest Mitterrand  e Kohl.

Questo incontro – e le reciproche dichiarazioni dei due capi di stato – ha, come già accaduto in altri frangenti simili, suscitato reazioni contrastanti, segno evidente di quanto rimanga arduo ancora oggi il tema della ricomposizione di una verità storica unita ad un legittimo senso di giustizia, senza necessariamente dover rimarcare il segno della colpa.

In Italia, rappresentanti della destra hanno utilizzato parole come “amarezza e delusione” per i rispettivi tributi di Italia e Slovenia, ma anche nomi importanti del mondo intellettuale hanno sollevato dubbi e perplessità sulle modalità dell’iniziativa; anche da parte slovena, modesta è stata la partecipazione delle organizzazioni di sinistra.

Come purtroppo spesso accade, iniziative come queste si scontrano con la diffidenza e con la difficoltà a superare antichi schemi e finiscono per essere lette attraverso la lente della strumentalizzazione storica ed ideologica, forzando la corretta comprensione di questi momenti – essi stessi storici – sulla base di contrapposizioni ormai tristemente cristallizzate e divenute dogmatiche.

Stretto tra esigenze di conservazione della memoria storica e timore di compartecipazione a operazioni di oblio se non addirittura di negazionismo, il dibattito storico e politico sembra registrare una certa fatica e diffidenza a – per usare un’espressione molto in voga negli ultimi anni – chiudere i conti con il passato.

Parlare di superamento, di condivisione del dolore e delle comuni sofferenze continuano a suonare come espressioni di debolezza, mentre l’esigenza più pressante rimane quella di addossare – ancora oggi – colpe e responsabilità.

Eppure è altrettanto evidente che questa situazione sclerotizzata di contrapposizione tra vittime e carnefici appare ormai come superata e soprattutto foriera di nuovi antagonismi sul piano ideologico e, quel che è più preoccupante, sotto il profilo sociale. 

Sembra invece sempre più urgente la necessità di trovare una nuova via, non solo sul piano giuridico ma anche in un’ottica più ampiamente umana, proprio per ricomporre quegli strappi, quelle lacerazioni che hanno purtroppo contraddistinto la recente storia europea ed extraeuropea; colpisce inoltre che tale urgenza sia percepita non solo in un quadro internazionale, dove ad essere interessati sono Paesi diversi, ma anche nell’ambito più specifico delle vicende di una singola nazione, che si tratti delle ceneri di una dittatura o delle rovine di una guerra civile.

Confrontando tutti questi panorami, forte è la sensazione che troppo spesso l’odio ideologico, presente o passato che sia, finisca per compromettere la ricostruzione della verità storica, piegando la memoria ai propri fini; una forzatura che paradossalmente finisce per unire proprio quei due poli – vittime e carnefici – che qualcuno vorrebbe, oggi come allora, ferocemente contrapposti, e che finiscono per ritrovarsi nel triste ruolo di spettatori inascoltati di un dibattito che invece dovrebbe vederli come assoluti protagonisti.

Fortunatamente, più dei tecnicismi è la natura dell’uomo ad intervenire, letteralmente creando delle soluzioni che – pur nella loro imperfezione – fondono insieme componenti culturali e, talvolta, religiose, sviluppando percorsi e strumenti diversi.

Non v’è dubbio, per esempio, che la soluzione adottata dal Sudafrica post apartheid con la Commissione Verità e Riconciliazione, uno strumento di giustizia da taluni definita come terapeutica, abbia incrinato alcune delle certezze di chi, nell’impegno di ricerca della giustizia e di ricostruzione della verità storica, fosse fino a quel momento ancorato a vecchie impostazioni.

Il salto dalla soluzione Norimberga a quella del Sudafrica è apparso a molti ardito, quasi inaudito, ma non v’è dubbio che la scelta del popolo sudafricano ha posto l’accento su un elemento determinante nel tentativo di soluzione di eventi come questi: nessun tecnicismo giuridico o politico può risultare efficace se svincolato dalla storia e dalla cultura di un paese, dai suoi valori e dalle sue tradizioni; in sintesi, dalla sua componente umana.  

Al di là delle disquisizioni storiche e delle rivendicazioni che, odiosamente, vengono riproposte in occasione di anniversari o celebrazioni, l’aspetto più importante spesso dimenticato, se non mortificato, appare proprio questo:  che si tratti di eventi occorsi tra paesi differenti o interni alla storia di un singolo Stato, rimangono sempre e soprattutto tragedie umane, senza colori o schieramenti di alcun tipo; strappi e ferite tra uomini che momentaneamente si sono trovati contrapposti dimenticando il proprio posto nella comunità umana, ma che proprio in nome della loro comune appartenenza e fratellanza sono chiamati ad un impegno, gratuito e disinteressato, improntato  alla riconciliazione.

Foibe, campi di sterminio, pulizie etniche, stragi, rimangono prima di tutto espressione di odio e violenza, mortificazione della natura umana e proprio per questo tragedie che devono necessariamente coinvolgere tutti, protagonisti diretti come anche spettatori e /o narratori di questi drammatici eventi.

In quest’ottica il ruolo delle istituzioni diventa determinante: troppo spesso infatti, sensibile ai malumori di partito o alle derive elettorali, il potere politico ha finito per assecondare l’una o l’altra rivendicazione, se non addirittura nascondendosi dietro un silenzio di natura pilatesca. È proprio invece in questi frangenti che il potere deve tornare a divenire funzione: funzione di pace, di riconciliazione, operando nella direzione di quella che è l’unica e vera libertà; la libertà di non sentirsi più nemici.

Non si tratta evidentemente di assumere l’atteggiamento di chi dà “un colpo al cerchio e uno alla botte”, piuttosto di farsi portavoce di quella che è e deve essere l’esigenza primaria, ossia costruire una memoria attraverso la comunione e non attraverso la divisione; perché slogan come “Mai più” o “Per non dimenticare” non siano di appannaggio di una sola parte ma moniti per tutti, senza alcuna distinzione.

Tale impegno basato sulla condivisione potrebbe erroneamente apparire come un’operazione dalla scarsa, se non addirittura assente, sensibilità nei confronti della parte lesa di un evento storico; è importante perciò ribadire che assegnare il posto principale ad una condivisione delle sofferenze patite non significa sminuire o cancellare le responsabilità di coloro che le hanno causate, piuttosto ottemperare ad un doveroso sforzo di conservazione della memoria comune, senza per questo mantenere nei confronti di qualcuno un sentimento di colpa che non unisce ma divide.

Perché come ha spesso ricordato Desmond Tutu: “Noi siamo intessuti in una fitta rete di interdipendenze: come diciamo con un’espressione africana: una persona è una persona attraverso altre persone. Disumanizzare l’altro significa inevitabilmente disumanizzare sé stessi”.   

Fonti:

Visetti, Gianpaolo. «Italia e Slovenia pace mano nella mano “Guardiamo avanti”». La Repubblica, 14 luglio 2020.

Ceccarelli, Filippo. «Quegli abbracci che provano a sanare la storia». La Repubblica, 14 luglio 2020.

Breda, Marzio. «Mano nella mano davanti alla foiba “ dopo il dolore, guardiamo al futuro”». Corriere della sera, 14 luglio 2020.

Flores, Marcello. «Nel cuore della storia dove soffiano le tensioni del ‘900». Corriere della sera, 14 luglio 2020.

Tobagi, Benedetta. «Ricucire un Paese lacerato. L’incontro tra Gemma Calabresi e Licia Pinelli al Quirinale ». Aggiornamenti Sociali.  N° 07-08, 2009: 511-520.     

Portinaro, Pier Paolo. I conti con il passato. Milano: Feltrinelli, 2011.

Tutu, Desmond. Non c’è futuro senza perdono. Milano: Feltrinelli, 1999.

Pahor, Boris. Il rogo nel porto. Rovereto:  Nicolodi, 2001.

Fotografia: website Presidenza della Repubblica Italiana

* Fabio Rossi, LM in Giurisprudenza, Specializzazione in Economia e gestione aziendale (LUISS School of Management), Master in Etica pubblica (Pontificia Università Gregoriana). Impegnato nel sociale, è Educatore in Convitto Nazionale.

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