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Riscoprirsi fratelli di Caino

Di Davide Pignata

«Permettete che mi presenti: io sono Giorgio Zoccola… uno dei tanti figli di Caino». Queste, nel febbraio dell’85, sono le parole di presentazione ad una conferenza nella quale si sarebbe discussa la creazione di una cooperativa sociale, promossa dal Servizio Missionario Giovani (Sermig) di Ernesto Olivero, a Torino.

Giorgio Zoccola, internato nelle carceri “Le Nuove” di Torino per crimini di poco conto, alla fine degli anni Settanta si politicizza in prigione, aderendo ai Nuclei Armati Proletari, e viene condannato per l’omicidio di un compagno di cella commesso nel giugno 1980.

L’ardente desiderio di costruire la cooperativa costella una corrispondenza epistolare che egli intrattiene dal 1984 al 1987 e che ci è stata messa a disposizione. Da dove nasce questo progetto?

Per trovare una risposta partiamo dai motivi etici che, improrogabili, si impongono in quegli anni. La scoperta del ’68 è che il mondo è villaggio, ci si sente interpellati da ciò che accade in Vietnam, in Palestina. Molti giovani, studenti e non, si accorgono di essere corresponsabili delle ingiustizie che accadono dall’altra parte del mondo, esito mortifero dello stesso sistema di cui fanno parte. Sorge, in loro, il desiderio di fare qualcosa. Boicottare la Coca-Cola statunitense o i pompelmi israeliani sono espressioni simboliche di movimenti interiori più profondi, che si traducono nella decisione di cambiare le carte in tavola.

Questi urgenti moventi etici, che attraversano gli anni Sessanta e Settanta, si ritrovano nelle lettere di Giorgio Zoccola: «Mi interessa poco sapere che da qui a cento anni nel terzo mondo non ci sarà più nessuno che muore di fame se oggi, malauguratamente, ne muoiono 30/40 mila al giorno. L’aiuto per salvare anche solo una vita umana è nel presente e non nel futuro!» (14/04/84[1]). E ancora: «Mi suona come una atroce beffa essere additato come criminale-assassino proprio da chi le armi le produce e le esporta ben sapendo che, con esse, vengono sterminati milioni di uomini… mi amareggia la pubblicità che viene fatta per questo grande successo industriale, quale vanto nazionale […] Dissociamoci da questa indifferenza se non vogliamo essere, anche se indirettamente, corresponsabili di questo eccidio» (04/02/84).

Come tradurre le sacrosante urgenze etiche in azione? La scelta della lotta armata – che si traduceva, in effetti, in atti di terrorismo – che alcuni giovani hanno compiuto in quegli anni, ci ha mostrato gli sviluppi negativi di quella che, al suo sorgere, era una maturazione della coscienza morale. Come è accaduto di passare da esigenze etiche giuste a scelte esistenziali e politiche distruttive? A volte si è trattato di veri e propri cortocircuiti logici. Ad esempio: sono preoccupato per il popolo vietnamita colpito da cacciabombardieri statunitensi; dalla mia postazione europea non posso fare nulla per contrastare chi sgancia le bombe, ma le istituzioni politiche del mio Paese fanno parte dello stesso sistema che dà gli ordini al pilota: allora uccido l’esponente politico o il professore universitario per poter colpire il sistema e, indirettamente, il pilota.

Un’altra direzione, forse, è possibile. Richiede la forza di abbandonare le scorciatoie offerte dalle false logiche; il coraggio di riconoscere gli errori e di lasciare emergere dal profondo un diverso modo di pensare. È ciò che accade a Giorgio: riprendiamo le sue lettere.

Egli sperimenta sulla propria pelle, in carcere, la mancanza della fraternità. Infatti si presenta come «figlio di Caino»: si sente lontano e respinto da chi continua, da millenni, ad accusare Caino.  «È vecchia di molte decine di secoli la storia del primo fratricidio… Di padre in figlio, questo racconto viene tramandato e, con esso, l’odio e la sete di vendetta nei confronti dell’assassino di Abele. […] Come posso far rimanere accesa la fiamma della speranza se, come per Caino, neppure dopo morto posso rincontrarmi con i miei fratelli? Per gettare il ponte del dialogo, dell’amicizia, dell’amore tra il mondo dei liberi e quello dei carcerati è indispensabile far crollare questo muro che imprigiona i cuori degli abitanti di entrambi gli universi» (04/02/84).

Verso i carcerati non esiste fraternità. Ma è proprio da questa esperienza che nasce il desiderio di adoperarsi per costruirla. Il caso della cooperativa sociale ne è un chiaro esempio. Le sentenze sono già state emesse e nessuno le mette in discussione. Ma ora si vuole creare uno spazio di orizzontalità dove i carcerati e gli incensurati possano lavorare fianco a fianco, diversi ma pari. Un altro segno di questo desiderio è la proposta di organizzare, in carcere, delle partite di calcio con persone esterne, come occasione per «far incontrare persone di mondi diversi, anche se solo su un campo di pallone!» (14/04/84).

Ecco allora una risposta alla domanda che ci aveva mossi inizialmente. Giorgio, vivendo sulla sua pelle il dolore della mancanza di fraternità, ovvero di un rapporto paritario e solidale tra esseri umani, la invoca. È il suo vivere sulla pelle l’essere escluso, l’essere emarginato dalla società che, almeno sembra, gli fa emergere il desiderio di fraternità.

La domanda – aperta – che in conclusione ci poniamo è questa: come far sorgere questo stesso desiderio a tutti, cittadini e soggetti politici, e non solo a coloro che sono direttamente oppressi da questa mancanza? Si pensi alla rivoluzione degli schiavi neri nella colonia francese di Haiti, proprio mentre in Francia si lancia l’ideale dei diritti dell’uomo e del cittadino i rivoluzionari francesi non si sarebbero mai sognati di rendere liberi, spontaneamente, gli schiavi della colonia; e infatti vi furono costretti dagli schiavi stessi, che si liberarono da soli. Storicamente, sembra che siano sempre coloro che subiscono gli effetti più negativi dell’assenza di fraternità, di diritti e libertà, a vivere il desiderio di una società più giusta. Ma per coloro che, in fin dei conti, stanno bene grazie alla disuguaglianza e alla riduzione di libertà che altri popoli subiscono, fondate sull’assenza di fraternità, come far sorgere il desiderio di costruirla? Oggi, come cittadini europei, in molte direzioni potremmo vedere questa mancanza, appesa ai confini spinati dei nostri Stati, affogata nel cimitero del mar Mediterraneo. Da dove far sorgere il desiderio di una società più fraterna? La risposta passa forse attraverso la mancanza: l’etimologia di desiderio è de-sidera: essere senza stelle. Il desiderio implica la mancanza. Sperimentare la mancanza della fraternità è allora, forse, la scintilla per accendere questo desiderio. La fragilità (e la sfida) della fraternità è proprio questa: farsi sentire, da tutti e a tutti i livelli, come esigenza del nostro tempo.


[1] Le lettere citate nell’articolo appartengono ad un archivio privato.

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