


Rosario Livatino, ieri giudice oggi beato
di Fabio Rossi*
21 settembre 1990, 9 maggio 2021. Potrebbero sembrare due date casuali quando, in verità, queste due giornate segnano simbolicamente il passaggio dalla morte alla vita per un uomo il cui martirio verrà ogni anno celebrato il 29 ottobre: Rosario Livatino, giudice vittima della mafia e – da quest’anno – beato.
Se infatti la prima data rimane per molti come uno dei molti giorni di morte che hanno caratterizzato le terribili stagioni della lotta alla mafia, costellate dalle tante stragi di uomini di Stato, ma anche di semplici cittadini fino a uomini di Chiesa, la seconda ben può dirsi un vero e proprio inno alla vita.
Ci sono voluti 10 anni perché l’iter di beatificazione, iniziato con la firma di Monsignor Montenegro – arcivescovo di Agrigento – del decreto di avvio del processo di canonizzazione del “giudice ragazzino”, giungesse a conclusione proprio il 9 maggio di quest’anno, in una cerimonia tanto solenne quanto densa di commozione che consegna a tutti, credenti e non, una testimonianza di coerenza, impegno e dedizione.
La beatificazione di Rosario Livatino porta con sé un altro primato, trattandosi infatti del primo giudice beatificato; ed è proprio da questo aspetto che nascono molteplici domande, che chiamano in causa la nostra coscienza, il nostro ruolo di credenti come anche di membri di una comunità sociale.
Come mai, in una storia che prima di Livatino ha annoverato la morte di giudici se non altro più conosciuti presso l’opinione pubblica (Falcone e Borsellino), è il giovane magistrato di Canicattì ad essere il primo magistrato canonizzato? Che cosa rende Rosario Livatino beato e, soprattutto, quanto questo riconoscimento ci coinvolge, ci appartiene? È quella di Livatino una testimonianza “esclusiva” per il mondo cattolico o piuttosto il suo orizzonte si espande ben oltre una scelta di fede?
Per provare a rispondere a queste domande urge prima di tutto tracciare un sintetico profilo del giovane magistrato morto all’età di 38 anni; e nello scorrere rapidamente le poche informazioni reperibili sulla sua breve ma significativa esistenza, un tratto comune sembra delinearsi: la discrezione, la compostezza, nella professione così come nella vita quotidiana.
Le testimonianze di chi lo ha conosciuto, dagli insegnanti ai compagni di scuola, dagli amici ai colleghi di lavoro, ci restituiscono l’immagine vivida di un giovane i cui risultati – prima scolastici e accademici, poi professionali – non sono mai stati motivo o occasione di vanto, piuttosto la concretizzazione di scelte e di impegno che ben possono riassumersi in un’unica parola, oggi particolarmente scomoda: vocazione.
A conferma di tale condotta, non stupisce che Rosario Livatino abbia sempre optato per una vita totalmente lontana dai riflettori, una scelta che per tutti noi – immersi in una realtà quasi esclusivamente caratterizzata da una dimensione social – appare non solo quantomeno curiosa ma forse anche difficile da sposare e sostenere; viene da domandarsi come sia stato possibile per il giovane giudice sottrarsi ad un’esposizione mediatica che soprattutto in quegli anni contraddistingueva l’opera dei magistrati impegnati contro la mafia, centellinando i propri interventi al di fuori dell’esercizio della sua professione, ma soprattutto concedendo ampio spazio ad una dimensione più profonda e personale della propria esistenza.
Alibi fin troppo semplice sarebbe quello di motivare tali scelte sulla base di un carattere certamente timido, a tratti introverso; eppure tutto questo rigore, tutta questo “adoperarsi per sottrazione” sono soprattutto il risultato di una scelta consapevole, maturata nei primi anni di esercizio delle proprie funzioni e consolidatasi durante lo svolgimento dei successivi incarichi. Per quanto giovane, Rosario Livatino comprende l’importanza per un giudice di conquistare la propria autonomia, la propria indipendenza e libertà, in un panorama sociale, economico e politico che non guarda più al giudice come una figura quasi sacerdotale, indiscussa e indiscutibile ma che intravede invece in quella stessa figura zone grigie e punti deboli.
Per conquistare tale indipendenza la scelta di Livatino è semplice, chiara e netta, come lui stesso ha esemplificato in occasione di uno dei suoi rarissimi interventi pubblici: il magistrato, così come qualsiasi altro pubblico ufficiale, non può che mostrarsi scevro da qualsiasi collegamento che non soltanto ne possa pregiudicare l’azione ma che in qualsiasi modo possa comprometterne l’immagine, il ruolo e la funzione da egli stesso svolta e personificata; una condotta che va ben al di là dell’orario di lavoro, delle specifiche competenze o attribuzioni, ma che deve caratterizzare la vita di ogni pubblico funzionario ogni istante della giornata.
Ben si evidenzia come in Rosario Livatino quello del magistrato non sia solamente un lavoro, una professione, un “fare”, piuttosto sia la risposta ad una chiamata, un abbracciare – con pienezza e consapevolezza – la propria natura, il proprio “essere”, la propria vocazione.
Proprio questo assecondare la propria natura consente a Livatino di dare alla funzione del magistrato un‘impronta certamente rigorosa in termini di condotta ma anche profondamente umana nell’esercizio del proprio ruolo di fronte ai soggetti che il giudice è chiamato a giudicare. Tanto dura appare infatti la posizione di Livatino di fronte ai rischi di commistioni in cui un giudice può incappare, tanto umano deve essere invece lo sguardo del magistrato di fronte a chi ha commesso un reato.
Per usare le sue stesse parole, un giudice deve restituire di sé un’immagine di «persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire»[1]; nessuna austerità, dunque, nessuna applicazione rigida e cieca della legge, piuttosto una visione costruttiva dell’applicazione del diritto, in linea con quanto espresso dalla nostra Costituzione ma certamente anche con la dimensione religiosa che Rosario Livatino non ha mai nascosto.
Non v’è dubbio che la fede cattolica ha fornito al giovane magistrato siciliano più di uno spunto per definire il modo stesso di svolgere la funzione di giudice, ma sarebbe fin troppo semplicistico caratterizzare questa visione del ruolo del giudice ad un semplice approccio di natura fideistica; la verità è invece che quella di Rosario Livatino è e rimane una testimonianza assai efficace di sintesi tra dimensione personale e dimensione sociale di una persona, tra le proprie convinzioni più profonde e il proprio contributo e la propria azione all’interno di una comunità.
Nel suo seppur breve percorso personale e professionale, Rosario Livatino delinea una figura di magistrato parimenti attento all’applicazione del diritto così come all’ascolto e alla comprensione dell’uomo; questo deve essere – secondo Livatino – il punto fondamentale e qualificante della figura del giudice, operatore di una giustizia che sappia distinguere l’atto – in questo caso il reato – dal soggetto. Che sappia comminare la pena ma sappia anche perdonare l’uomo.
Le convinzioni di Rosario Livatino non suonano nuove, ma richiamano le posizioni espresse da un’altra illustre vittima di mafia, don Pino Puglisi, ma soprattutto sembrano sposare un’idea di giustizia lontana da logiche rigidamente retributive, per assumere invece una dimensione di vera e propria riconciliazione.
Non si tratta – come qualcuno potrebbe obiettare – di una giustizia debole, troppo remissiva nei confronti di chi delinque, cavalcando l’onda di quel populismo di cui purtroppo oggi siamo troppo spesso testimoni; ma di raccogliere davvero la sfida che la Costituzione italiana ha lanciato al momento della sua emanazione: una sfida per una giustizia che colpisca il reato ma che guardi all’uomo e alla sua capacità di riabilitazione e di rinascita.
Che si trattasse di Dio o di giustizia, quella di Livatino è stata comunque una scelta di fede e di vita e proprio per questo il suo esempio, la sua capacità di sintetizzare insieme etica cristiana e esercizio della funzione giurisdizionale, sono assolutamente una lezione per chiunque, a prescindere dal proprio credo religioso.
È insomma la vita stessa di Rosario Livatino a mettere insieme due esiti solo apparentemente distanti: il martirio del credente e il sacrificio dell’uomo di Stato.
In una realtà quale quella odierna in cui troppo spesso – e male – viene invocata la laicità dello Stato e delle funzioni da esso esercitate, questo giovane magistrato, barbaramente ucciso dalla mafia ma quanto mai vivo nel ricordo, dona a tutti un esempio di sensibilità, di impegno, di interpretazione e svolgimento di un ruolo così delicato, in equilibrio tra dimensione religiosa e funzione laica, capace di attingere e arricchire vicendevolmente due sfere che spesso qualcuno vorrebbe – artificiosamente – in aperta contrapposizione.
Bibliografia
Rossi, Fabio. «Fede e giustizia: la lezione di Rosario Livatino». Nuova Umanità XXXIV (2012/2) 200: 207-215.
Abate, Ida. Il piccolo giudice. Roma: Ave, 2005.
Dalla Chiesa, Nando. Il giudice ragazzino. Torino: Einaudi, 1992.
*Fabio Rossi, LM in Giurisprudenza, Specializzazione in Economia e gestione aziendale (LUISS School of Management), Master in Etica pubblica (Pontificia Università Gregoriana). Impegnato nel sociale, è Educatore in Convitto Nazionale.
[1] I testi integrali degli interventi pubblici sono reperibili presso il sito del Centro studi Livatino:
ROSARIO LIVATINO | Centro Studi Rosario Livatino (centrostudilivatino.it)