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Scienza e psicologia: un rapporto da definire

Di Fabio Frisone*

Se volessimo domandarci quale sia il principale compito della psicologia, dovremmo partire dal presupposto che essa indaga non solo una parte dell’individuo, ma la sua intera esistenza. E se è vero che la corrispondenza latina di ‘esistenza’ fa riferimento ad exsistĕre e denota un significato legato all’uscire fuori, al farsi avanti, compito della psicologia risulta quello di indagare la natura aperta e non stabilizzata (Nietzsche, 2011) delle persone. Lo spazio di indagine psicologica, dunque, è proprio quello che impedisce all’uomo di essere determinato dai nessi causali attraverso i quali viene ottenuta la conoscenza delle scienze naturali.

L’umana apertura originaria conferisce a ciascuno il proprio modo di stare al mondo, e la psicologia ha bisogno di utilizzare un metodo che le permetta di indagare di volta in volta un paziente che risulta diverso, unico e irripetibile.

Per fare chiarezza sul rapporto tra scienza e psicologia appare importante chiarire la differenza tra il concetto di spiegazione e quello di comprensione. Attraverso lo studio e la pratica del metodo esplicativo, è possibile ricavare tutto il materiale di conoscenza offerto dalla metodologia causale tipica delle scienze naturali. Il metodo comprensivo, invece, attraverso altri strumenti, permette di cogliere la soggettiva intenzionalità con la quale si esprime ciascun paziente. Questa differenziazione, proposta per la prima volta dallo psicopatologo e filosofo Jaspers (1964), chiarifica che la cura dell’incontro terapeutico poggia su elementi che non è possibile ridurre alla logica esplicativa. Ad esempio, quando ci si trova di fronte ad un paziente che ha vissuto una situazione per lui traumatica, compito della psicologia non è tanto quello di risalire alle cause che hanno contribuito a vivere l’esperienza in quel modo, ma piuttosto aumentare progressivamente la possibilità che il paziente cominci ad elaborare una narrazione diversa rispetto al medesimo evento. Per far questo occorrono strumenti terapeutici che, piuttosto che focalizzarsi sulla spiegazione, tentino di intercettare il modo con cui, allo stato attuale, il paziente vive quell’evento. Solo che per cogliere veramente il modo con cui il paziente vive le proprie esperienze – quindi la soggettiva strutturazione di senso che non è riducibile alla semplice spiegazione causale – bisogna rendersi conto che occorre un metodo che faccia della comprensione la prerogativa essenziale. Il metodo comprensivo richiede sia la capacità di immedesimazione, sia la dedizione a procedere tramite un rigoroso criterio indirizzato a mettere in luce il modo di darsi al mondo del paziente (Binswanger, 1973).

L’habitat della comprensione

Per riuscire a cogliere l’effettiva differenza tra metodo esplicativo e comprensivo, risulta utile riflettere su cosa può avvenire quando, ad esempio, ci si trova dinanzi a situazioni di abuso infantile: in tale circostanza, ciò che spesso capita nell’incontro terapeutico mette in luce che, durante l’età infantile, la persona abusata non abbia potuto attribuire all’esperienza vissuta un significato preciso. Questa mancata attribuzione di senso crolla quando invece nell’età adulta si comincia ad avere la possibilità di capire cosa sia successo in passato, e a questo punto all’evento viene conferito il tipico significato legato all’abuso. Dunque, a partire dall’attribuzione di senso di un evento passato, può capitare che esordiscano percorsi di sofferenza psichica che necessitano di un percorso terapeutico. Non di rado possono svilupparsi persino sensi di colpa legati al fatto di non esser stati in grado di impedire quell’esperienza, e in questo caso un buon percorso terapeutico si focalizza proprio sulla necessità di lavorare sul senso di colpa del paziente. Questo piccolo esempio può servire a far chiarezza sul fatto che, in termini di cura, ciò che conta è mettere in luce le connessioni di senso delle esperienze del paziente: per lui che peso hanno oggi gli eventi del passato? E se non si comincia una nuova narrazione rispetto ai medesimi, che peso continueranno ad avere nelle sue scelte di domani?

Tali interrogativi risultano cruciali in ottica terapeutica, tant’è vero che un paziente, dopo esser riuscito a prendere posizione su ciò che ha vissuto, può persino decidere di fare di questa esperienza un’occasione per stabilire un contatto con la sofferenza di chi ha vissuto situazioni analoghe.

Dunque, rispetto alle connessioni esplicative di causa-effetto, una differenza sta nel fatto che il metodo comprensivo rivela che non è solamente il passato che agisce sul presente, ma che anche il presente, attraverso un circolo ermeneutico, può retroagire sul passato e, tramite una nuova narrazione, offrire al futuro la grande opportunità di attribuire un senso nuovo a quello stesso evento.

Affinché un percorso terapeutico acquisisca effettiva valenza curativa, occorre immaginare il mondo della psicologia come un ambiente comprensivo, mediante il quale avviene un avvicinamento tra persone che partono da presupposti ed esperienze radicalmente differenti. Il significato che un paziente ed un terapeuta assegnano ad un medesimo evento è molto distante, e compito iniziale del cammino terapeutico è quello di cominciare un progressivo riconoscimento di questa diversità.

La comprensione, lungi dal poter rientrare all’interno del metodo scientifico-naturale, richiede di venir riconosciuta per ciò che è, ossia una condotta tipica delle scienze umane. Rispetto alla spiegazione causale, infatti, la psicologia comprensiva non si focalizza, per esempio, sugli effetti psicofisiologici sottostanti agli avvenimenti di vita, ma su come cambia il modo di stare al mondo di un paziente.

I rischi della comprensione

Il mondo della comprensione presenta non pochi rischi. In primo luogo, occorre evitare di conferire alla comprensione la medesima valenza della spiegazione. La spiegazione causale differisce dalla psicologia comprensiva, e se non si acquisisce la giusta competenza che tuteli dal rischio di fare confusione tra i due campi, i danni possono diventare enormi. Spesso, infatti, si può avere il desiderio di comprendere ogni cosa, e avvalendosi della comprensione senza averne riconosciuto i limiti, si cerca di dare significato a qualsiasi esperienza descritta dal paziente soltanto perché si presuppone che il significato che egli conferisce alla propria esperienza sia del tutto analogo al nostro. Questo tipo di pregiudizio psicologico, però, potrebbe portare a fraintendere del tutto il vissuto del paziente.

Ciò che può venire in aiuto alla psicologia rispetto alla difficoltà di barcamenarsi nel complesso mondo che oscilla tra i criteri della spiegazione e quelli della comprensione, è dato da alcuni fattori:

  • innanzitutto, occorre dare priorità ai significati che il paziente riconosce come propri nella lettura delle sue esperienze;
  • inoltre, ciò che può far luce sulla comprensione è dato dalla possibilità di riuscire a intercettare il mondo psicologico in cui vive il paziente, e per far questo occorre un intenso percorso di formazione psicologica che richiede diversi anni.

Per riuscire a realizzare entrambi gli obiettivi, gli psicologi sono chiamati ad affrontare molte sfide, tra le quali quella di mantenere un grande livello di partecipazione affettiva nell’incontro col paziente, volta ad acquisire un tipo di conoscenza sulle sue esperienze vissute che va ottenuta anche mediante il sentimento.

Va da sé che la necessità di impiegare le proprie risorse empatiche per venire incontro al riconoscimento del mondo del paziente non ha nulla a che vedere con la possibilità di oggettivazione tipica del metodo scientifico-naturale. Qui è proprio il contrario. Allo psicologo viene infatti richiesta tutta la sua soggettività per riconoscere il mondo in cui l’altro abita. Lo psicologo, però, deve allo stesso tempo acquisire la capacità di riconoscere la differenza tra sé e il paziente: per quanto ci si possa immedesimare, infatti, occorre comunque riconoscere la distanza tra il proprio mondo e quello dell’altro. Identificarsi con l’esperienza vissuta dal paziente aiuta lo psicologo a comprendere il disagio psichico sottostante, ma ciò non basta almeno per due motivi:

  1. L’immedesimazione può assumere valenza positiva soltanto quando si è consapevoli del fatto che essa rappresenta solo il primo di una lunga serie di passaggi richiesti dal percorso terapeutico. Come osservato in precedenza, ad ogni evento una persona attribuisce un significato particolare; ciò significa che un medesimo evento preso in esame può comunque risultare differente per due persone, nonostante il tentativo di immedesimazione. Ad esempio, una madre, mettendosi nei panni di suo figlio, può legittimamente pensare che per lui sia importante festeggiare la ricorrenza dei 18 anni organizzando una grande festa. Ma un figlio può altrettanto legittimamente pensare che per i suoi 18 anni non occorra organizzare una grande festa. Per lo psicologo non basta cercare di capire cosa farebbe lui se si trovasse al posto dell’altro; deve andare oltre, provando a cogliere i significati che strutturano il mondo della persona che ha di fronte.
  2. Immergersi nel mondo dell’altro senza aver prima acquisito la capacità di mantenere sempre un distacco adeguato, può provocare allo psicologo gravi rischi in termini di salute. A tal proposito, essere coinvolti a lungo termine in situazioni professionali di difficile gestione emotiva può portare all’insorgenza di fenomeni quali burnout, ossia un intenso stato negativo caratterizzato da danni fisici, emotivi e mentali; ma ci si può anche trovare a fare i conti con la compassion fatigue, ossia quel fenomeno, acuto e improvviso, che può emergere in presenza di esperienze terapeutiche particolarmente difficili da affrontare (Settineri et al., 2019).

In conclusione, il fatto che la comprensione psicologica necessiti anche della capacità di immedesimazione indica quanto la psicologia, piuttosto che assumere i classici connotati di scienza naturale, rivela la sua peculiarità nella dimensione artistica custodita tra le scienze umane. Il lavoro dello psicologo, infatti, piuttosto che assomigliare a quello di uno scienziato imparziale dinanzi alle leggi che indaga, esige il totale coinvolgimento del professionista, che come primo obiettivo deve avere quello di interessarsi alla persona che ha di fronte, perché quando si ha la passione per esplorare il mondo dell’altro diventa possibile cominciare un percorso di conoscenza migliore, volto alla salvaguardia delle salute mentale.

Bibliografia:

  1. Binswanger, Ludwig. Essere nel mondo. Roma: Astrolabio, 1973.
  2. Jaspers, Karl. Psicopatologia generale. Roma: Il pensieroscientifico, 1964.
  3. Nietzsche, Friedrich Wilhelm. Umano, troppo umano (Vol. 41). Roma: Newton Compton Editori, 2011.
  4. Settineri, Salvatore; Frisone, Fabio; Alibrandi, Angela; & Merlo, Emanuele M. «Vulnerability and physical well-being of caregivers: what relationship?». Journal of Mind and Medical Sciences6(1), 2019: 95-102.

* Fabio Frisone, psicologo, è dottorando di ricerca in Scienze cognitive nell’Università di Messina

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