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Un’altra storia ha inizio da qui: la giustizia secondo Carlo Maria Martini

di Fabio Rossi

Tra i molteplici doni che Carlo Maria Martini ci ha lasciato in eredità, senza dubbio i tanti scritti, interventi e le riflessioni in tema di giustizia sono ancora oggi straordinariamente attuali, tanto da produrre dibattiti, studi e approfondimenti riguardo il rapporto – tutt’altro che semplice – tra amministrazione della giustizia e tutela della società.

A conferma di tale interesse, l’appuntamento annuale ormai consolidato delle Martini Lecture – organizzato dalla Diocesi di Milano in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca e la Fondazione Carlo Maria Martini – ha visto per il 2020 l’incontro tra Adolfo Ceretti, professore di criminologia dell’Università di Milano Bicocca, e Marta Cartabia, già giudice – nonché prima presidente donna – della Corte Costituzionale e oggi Ministro della Giustizia del governo Draghi, un incontro  di cui Un’altra storia inizia qui[1] è la diretta testimonianza.

Un primo aspetto che giova rimarcare per entrambi gli interventi è senza dubbio l’impatto prima ancora umano, oltre che teologico e pastorale, dei pensieri di Carlo Maria Martini, pensieri vivi e ancora oggi estremamente fertili, ricordati da Adolfo Ceretti e Marta Cartabia con commozione ma anche con la consapevolezza della loro trasversalità e contemporaneità.

Per entrambe le voci colpisce da subito quanto il dato esistenziale ed esperienziale del cardinal Martini abbia avuto un impatto fortissimo su una generazione di studenti e studiosi di diritto, una testimonianza efficacissima di come qualsiasi riflessione in tema di diritto – ancora di più di giustizia – debba staccarsi da una connotazione meramente tecnicista ma debba invece abbracciare tanti altri profili, da quello umano a quello sociale, da quello etico a quello religioso. 

Il primo intervento è quello di Adolfo Ceretti e non stupisce che a trasparire dalle prime pagine sia soprattutto l’uomo ancor prima del professore di diritto, a dimostrazione di quanto i pensieri e le idee dell’arcivescovo di Milano siano state un prezioso seme, capace di produrre nelle menti di tanti destinatari percorsi nuovi, forse neanche immaginati dallo stesso mittente.

Il primo aspetto che Adolfo Ceretti esamina (e lo fa ricordando l’ultima, emozionante Cattedra dei non credenti del 2002, organizzata con Gustavo Zagrebelsky e poi pubblicata l’anno successivo con il titolo di La domanda di giustizia) è la prospettiva di Martini sul senso della giustizia, un approccio che parte dal suo opposto, ossia dal senso di ingiustizia che ognuno di noi almeno una volta nella vita ha provato:

“Quando ci sentiamo trattati ingiustamente, è scoppiata dentro di noi una profonda ribellione, abbiamo gridato: non è giusto, non è vero (…) E nel momento in cui ci rendiamo conto che quanto vogliamo per noi vale pure per gli altri, nasce quel senso di giustizia che si esprime nella regola aurea del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; e mi pare sia questa la formula più embrionale della percezione della giustizia o dell’ingiustizia”(pag.12).

Non stenta Ceretti a definire questo approccio una vera e propria “intuizione morale”, un primo input di una riflessione caratterizzata da un’apertura verso una prospettiva riparativa della giustizia fin dal lontano 1997, quando in Italia poche erano le voci e le riflessioni su un diverso modo di concepire senso e connotati della giustizia; il valore aggiunto nelle considerazioni di Martini sta però, come rimarca lo stesso Ceretti – nel sapiente impasto tra la straordinaria profondità del biblista Martini e l’altrettanto significativa esperienza pastorale e umana dell’arcivescovo di Milano; una visione della giustizia che deve conservare sempre un preciso e ineliminabile orizzonte: “L’errore e il crimine indeboliscono e deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano al regno animale. Perciò le leggi hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona” (pag. 24)    

Come rimarca Ceretti, un sistema penale non deve solo non essere crudele, ma anzi deve caratterizzarsi per un “ethos” sociale che sappia rispondere alle domande di giustizia e solidarietà di tutte le componenti di una collettività sociale, in special modo a quelle direttamente coinvolte dalla commissione di un reato.

Dal canto suo Marta Cartabia si concentra innanzitutto sulle radici delle riflessioni di Carlo Maria Martini in tema di giustizia, riflessioni tutt’altro che meramente teoriche, basate piuttosto sui legami e le frequentazioni del Cardinale con gli ospiti del carcere di San Vittore di Milano, un rapporto costruito attraverso quel conoscere – le persone, i luoghi , le problematiche – che è innanzitutto visitare, secondo quel versetto del Vangelo di S. Matteo a cui Carlo Maria Martini tante volte ha fatto riferimento nei suoi scritti e nei suoi interventi:  “Ero in carcere e mi avete visitato” ( Mt, 25, 43).

Marta Cartabia insiste molto su questo aspetto del visitare, ricordando con grande emozione anche le annuali visite dei giudici della Corte Costituzionale nei principali carceri italiani, a testimonianza di quanto importante, coinvolgente e – per quanti si occupino di diritto – doveroso varcare la soglia di quegli istituti, per lasciarsi interrogare non solo da detenuti, personale e volontari, ma anche dalle proprie coscienze.

Non si tratta evidentemente di dare risposte risolutive, piuttosto di lasciarsi invadere da quelli che non sono meri interrogativi giuridici per addetti ai lavori, ma quesiti dalla grande valenza umana, etica e, in alcuni casi, religiosa: “Visitare un carcere è un’esperienza esigente: chiede una partecipazione integrale, di tutta la persona, con la sua professionalità e la sua umanità” (pag. 63). Carlo Maria Martini ben aveva compreso la complessità di una riflessione intorno al senso vero e ai caratteri della giustizia, delineando un approccio e un metodo senza dubbio innovativi; rimarca Marta Cartabia come i contributi del cardinale si contraddistinguano tutti non solo per la grande complessità ma anche per il ricercato equilibrio tra i diversi elementi che li compongono, non lasciando mai prevaricare la notazione giuridica, o la prospettiva pragmatica o l’orizzonte teologico.

Non stupisce pertanto che tra i contributi più significativi l’autrice ricordi anche lei il dialogo tra Martini e Zagrebelsky , nel quale sono ben individuabili i due punti fermi del pensiero di Martini in tema di giustizia: la dignità della persona e la costruzione di un sistema che garantisca sicurezza e incolumità dei cittadini.

Come già segnalato anche da Ceretti, nelle riflessioni di Martini la sapienza biblica e la conoscenza diretta e personale del carcere producono quell’idea di giustizia che non si conclude  – o non si realizza  – con una sentenza, ma che anzi trae da essa lo spunto per un nuovo inizio; non a caso dunque Marta Cartabia – quasi in un’ ideale linea di continuità – rimanda a Paul Ricoeur, ricordando come una sentenza non sia mai l’ultima parola: “La parola dettata dalla sentenza non è “l’ultima parola”, è una “parola di giustizia” che occorre pronunciare e di cui è necessario prendere atto , ma da questo punto in poi incomincia un’altra storia” (pag. 81).

Il pensiero di Carlo Maria Martini si muove assolutamente su questa linea, anzi si spinge ben oltre, individuando l’impegno educativo di un’intera società per la rieducazione del condannato come il vero obiettivo da perseguire: “ Preferirei non si costruissero più carceri, ma ci preoccupassimo e impegnassimo di più e tutti “nel costruire uomini” attraverso un’educazione” .

Il rischio di una lettura troppo benevola nei confronti dei detenuti è ben evidente, ma l’attenzione rivolta da Martini a queste persone non ha mai offuscato la sua attenta preoccupazione per la sicurezza sociale; proprio questa duplice sensibilità comporta inevitabilmente una concezione della giustizia intesa come luogo di riconciliazione, sulla scorta di una prospettiva che lo stesso Papa Francesco , in occasione del discorso alla Polizia Penitenziaria del 14 settembre 2019, ha fortemente ribadito: mai privare alcuno del diritto di ricominciare.

Vi è certamente nel pensiero di Martini la consapevolezza della necessità di una risposta alla domanda di sicurezza espressa da ogni comunità, ma tale risposta è possibile solo se si ha il coraggio di percorrere strade nuove, forse più ardue e impopolari, piuttosto che affidarsi a logiche ormai desuete e in gran parte inefficaci: “La repressione, grande o piccola che sia, può sembrare la via più facile ed efficace per arrivare a certe garanzie sociali. Ma la sicurezza che essa produce è più apparente che reale e l’ordine illusorio e alle volte mortifero” (pagg.88-89).

Oggi il tema di una giustizia dai tratti riconciliativi, sulla scorta anche della recente storia europea ed extraeuropea, è divenuto quasi di dominio pubblico, con tutti i rischi che tale diffusione porta con sé;  proprio per questo riscoprire le intuizioni, i pensieri e la profondità di chi, come Carlo Maria Martini, ha molti anni fa intuito la necessità di un cambio di prospettiva, può divenire momento di arricchimento per una crescita che è prima di tutto umana e spirituale, che coinvolge l’intera persona e – senza dubbio – la sua dimensione di membro di una qualsiasi collettività, grande o piccola che sia.                  


[1] Ceretti, Adolfo e Cartabia, Marta. Un‘altra storia comincia qui. Milano: Bompiani, 2020.

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