


Medico e paziente: un gioco di sguardi
di Fabio Frisone*
Siamo sicuri che la relazione tra il paziente ed il proprio medico sia del tutto superflua? Capisco che la domanda possa sembrare provocatoria, ma questo è quanto molti sono arrivati a credere oggi. I decreti governativi finalizzati a contrastare il Covid-19, sono dovuti intervenire, infatti, anche sul complesso equilibrio del rapporto medico-paziente. Di fatto, sommando le richieste volte a contrastare la pandemia a ciò che nel frattempo era già venuto a costituirsi come prassi terapeutica, medico e paziente rischiano di non incontrarsi. Ma si può davvero considerare che i valori scaturiti, ad esempio, dall’esito degli esami clinici non abbiano bisogno di essere valutati da un medico che, nel corso del tempo, ha imparato a conoscere il proprio paziente?
La storia dietro la cartella clinica
Forse occorre riflettere più a fondo sul fatto che dietro questo rapporto esiste una storia, così come c’è una storia dietro ad una cartella clinica. E se non si affina lo sguardo per riconoscere l’importanza di questo rapporto, si rischia di dare alla scienza – o alla tecnica – un compito che supera le sue possibilità. Sin dalle sue origini l’arte medica ha riconosciuto l’importanza di non limitarsi alle indicazioni “oggettive” fornite dalla scienza. Ma è anche vero, d’altra parte, che Ippocrate avvertiva i medici di non andare oltre le proprie competenze: “Il medico che si fa filosofo diviene pari a un dio”.
Sembra comunque che esista un motivo valido che spiega l’esigenza di esercitare “filosoficamente” la professione medica: le malattie hanno bisogno di essere colte da un punto di vista capace di riconoscere la differenza tra i presupposti organici e l’individuo nella sua interezza. Quando un paziente consegna la propria esistenza gettandosi tra le braccia di un medico perché privato della sua tipica possibilità di progettare un futuro e di vivere pienamente la propria vita, esprime un disagio che oltrepassa il mero aspetto organico. Assumere tale consapevolezza, pertanto, significa evitare di ridurre l’individuo a semplice organismo. E questo fa parte della professione medica.
Sebbene tale impostazione trovi le sue origini a partire dalla comparsa della medicina, allo stato attuale risulta evidente che l’approccio con il quale il medico visita il paziente resta spesso confinato al mero aspetto anatomico, oggettivo, ma, come direbbe Karl Jaspers (1964) che era medico e, allo stesso tempo, uno dei più illustri filosofi del secolo scorso, “quando l’uomo è oggettivato, in quanto tale non è mai se stesso” (Jaspers, 1964, p. 848).
La metodologia scientifica moderna, nel tentativo di spiegare un soggetto oggettivandolo per esigenze di metodo, ha reso il mondo della salute lontano dalla possibilità di accogliere ogni individualità. Tuttavia, al di là dei nessi causali sottostanti ad una disfunzione organica, sui quali occorre intervenire con tutti gli strumenti appropriati, l’essere-malato non può venire ridotto e compresso al fine di ottenere un inquadramento statistico. La statistica, infatti, è certamente utile, ma solo fino a quando evita di ridurre il paziente alla sua componente fisiologica perché, come rileva il filosofo Umberto Galimberti (2006, p. 266), “se si isola il corpo dall’esistenza, se lo si astrae dal suo vissuto quotidiano, ciò che si incontra non è più la corporeità che l’esistenza vive, ma l’organismo che la biologia descrive”.
Non bisogna dunque dimenticarsi che ogni paziente è unico e irripetibile.
Medico-paziente: un comune destino
Il coinvolgimento relazionale costituisce, in effetti, la condizione di partenza per qualsiasi tipo di cura. Oltre a perseguire un ordinamento scientifico capace di trovare principi universali volti a descrivere ciò che avviene in termini naturalistici, dunque, nel campo della salute occorre attribuire preminente importanza a cogliere il significato che le malattie assumono per ciascun paziente.
I presupposti di cura trovano la loro collocazione all’interno di un percorso terapeutico che ha bisogno di una conoscenza ottenuta mediante la condivisione di un destino comune che caratterizza il rapporto paziente-terapeuta.
In tale percorso, dunque, occorre affinare la capacità del medico di sentire dentro di sé la responsabilità per l’altro, perché la conoscenza ottenuta attraverso il filtro di una metodologia impersonale risulta insufficiente per un effettivo riscontro terapeutico. A tal proposito, risulta opportuno rilevare che Eugenio Borgna (2015), uno dei più importanti psichiatri italiani contemporanei, interpreti la pratica terapeutica come una vera e propria “comunità di destino”, in cui la terapia riesce ad assumere valenza curativa solo quando il destino del paziente e del terapeuta si compenetrano a tal punto da delineare un percorso di guarigione in cui viene previsto un comune impegno per il raggiungimento dell’obiettivo.
Prendersi cura degli uomini in un contesto terapeutico, nella fattispecie, significa fare in modo che da tale rapporto non scaturisca una prospettiva verticale atta a promuovere un compassionevole aiuto dell’uno-sull’altro, ma far sì che la terapia, muovendosi all’interno di un paradigma relazionale incentrato nell’uno-per-l’altro, si profili come spazio di cura autentica. Questo orientamento ha rilevanza non solo per le terapie di tipo psicologico ma, in forme e misure diverse, per tutti gli eventi terapeutici nei quali è in gioco un rapporto tra persone.
In questo contesto, pertanto, si tratta di affinare le capacità offerte dall’intelligenza del cuore, la quale mette in luce che “il medico e il malato sono entrambi esseri umani, e come tali accomunati nel destino. Il medico non è solo un tecnico, né solo un’autorità, ma un’esistenza per un’esistenza, un essere umano transeunte insieme con gli altri” (Jaspers, 1964, p. 849).
Riuscire ad avere un mondo in comune, però, potrebbe non bastare se al contempo si cercasse di ricondurre alla propria visione del mondo quella altrui. Per questa ragione sarebbe auspicabile che un paradigma relazionale come quello della fraternità (Baggio, 2007, 2012), promotore di diversità e al contempo custode del pari diritto, trovasse modo di abbracciare anche il campo della salute.
D’altra parte, come rileva lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Stanghellini, “comprendere l’altro significa in primo luogo ammetterne l’incomprensibilità. Averne cura significa restare consapevoli della sua irraggiungibilità” (Stanghellini, 2018, pp. 217-218).
Da questa prospettiva, trovano ancora una volta spazio le parole di Galimberti, che mettono in luce come risulti “necessario abbandonare ogni sistema di riferimento non solo ‘scientifico’, ma anche ‘proprio’ per entrare nel mondo altrui onde scorgervi la norma che regge il suo mondo in tutte le sue manifestazioni. La strada ce la offre l’altro, quando ci mette a disposizione quella possibilità che è nell’essenza di ogni esistenza: la possibilità della co-esistenza” (Galimberti, 2006, pp. 364-365).
Avere coscienza che il percorso terapeutico si configura a partire da uno sfondo filosofico-umanistico, orienta il campo della salute su dei binari volti ad ostacolare qualsiasi tipo di riduzionismo e ad offrire allo spazio dell’incontro l’importanza che gli compete.
Bibliografia
Baggio, Antonio M. (Ed). Caino e i suoi fratelli: il fondamento relazionale nella politica e nel diritto. Roma: Città Nuova, 2012.
Baggio, Antonio M. (Ed.). Il principio dimenticato: la fraternità nella riflessione politologica contemporanea. Roma: Città Nuova, 2007.
Borgna, Eugenio. La comunità di destino. Un nuovo principio di speranza. Milano: Feltrinelli, 2015.
Galimberti, Umberto. Opere. 4. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006.
Jaspers, Karl. Psicopatologia generale. Roma: Il pensiero scientifico, 1964.
Stanghellini, Giovanni. “La responsabilità di comprendere”. In Molaro, Aurelio (Ed.). Daseinsanalyse, psichiatria, psicoterapia. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2018: 205-238.
*Fabio Frisone, psicologo, è dottorando di ricerca in Scienze cognitive nell’Università di Messina.